La Scicli turistica e il quartiere Jungi
Cronache di periferia.
Il quartiere Jungi è un quartiere di periferia di Scicli. In realtà non è distante dal centro, in venticinque minuti a piedi si arriva sotto il comune, dove c’è l’ufficio di Montalbano. La distanza è aumentata invece dall’architettura delle case: la Scicli turistica è bella, sempre tanti turisti, pulita. Tanti negozi, tanti locali. Jungi sembra invece lasciata andare. Solo venticinque minuti a piedi, e sei in un altro paese.
I palazzoni alti e a tratti le case basse, alcune porte non hanno neanche il numero civico. Per chi arriva da fuori potrebbe sembrare un posto anonimo. Non si muove l’aria, il sole batte sui muri bianchi e la luce in certi momenti della giornata è accecante.
Invece il quartiere è vivo. Gli anziani seduti con le sedie davanti le porte hanno sempre da raccontare e la macchinetta del caffè è sempre accesa. In certi angoli delle strade i bambini si divertono a colorare con i gessetti colorati i muri delle case. A volte si beccano anche delle secchiate d’acqua sporca dai piani alti dei condomini.
E tra “mafia” “matteo messina denaro” e parolacce, si leggono scritte del tipo “giulia ama andrea” o “viva l’amicizia”. È secca, Jungi, le ringhiere sono arrugginite e le aiuole aride tutto l’anno. Tra le mattonelle, ogni tanto, spuntano della radici, secche anche quelle. Dietro il campo da calcio ci sono delle aiuole lasciate all’incuria. Piante alte, vetri ovunque, sabbia.
In mezzo a queste, ai piedi di un palazzone, c’è un piccolo orto. È curato, ci sono spezie e ortaggi. È l’una del pomeriggio e una signora ci sta lavorando. A mani nude, si guarda in giro, concentrata. Quando le chiediamo come fa a lavorare con quel caldo, sorridendo dice che c’è abituata, e ci fa vedere l’abbronzatura delle spalle. Ci sono quaranta gradi.
È Denise, ha 50 anni e due figli, magrolina e con un vestito elegante, anche se lavora nell’orto. È pettinata bene, ha lo smalto ai piedi e i sandali. I segni della sua fatica sono nelle mani. In dialetto stretto, racconta che ha finito di lavorare da poco e per non perdersi nella noia ha deciso di sistemare il giardino sotto casa sua, mettendoci dei fiori e l’orto. In quindici giorni ha sradicato le erbacce e reso coltivabile il terreno. Così mangia bene e non si ferma, i vicini che passano le sorridono e la salutano, lei dice a tutti che chi vuole può prendersi il basilico.
Ci spiega che fino a quindici giorni prima lavorava per un consorzio agricolo. Sveglia alle cinque del mattino, tutti i giorni. Lavorava fino alle due di notte, con due pause per i pasti. Quante ore lavorava ogni giorno? Si ferma a pensarci un attimo. Poi dice “non lo so, so solo che dormivo circa tre ore a notte. Prendendo quattro euro e venti all’ora”.
Quando le facciamo notare che guadagnava veramente poco e a ritmi disumani, alza le spalle “c’è di peggio”, e sottolinea che le pause dei pasti non erano pagate. Come faceva a tenere ritmi così pesanti? “Ci si abitua in fretta”. E con la mano fa segno che non ha più voglia di parlarne, che tanto non ha importanza.
Con il “c’è di peggio” intende alcune delle famiglie del quartiere che non hanno neanche quei quattro euro e venti all’ora, le molte mamme che crescono i bambini da sole e aspettano che i mariti escano dal carcere, i tanti giovani che hanno lasciato la scuola e che hanno già perso la speranza di trovare lavoro e che se gli chiedi che cosa vorrebbero per il futuro alzano le spalle.
“E poi io sono contenta” continua ad un certo punto “ho il mio orto, i miei figli stanno bene e vado spesso a pescare, così mangio pure pesce fresco”. Sorride e fa “Aiutatemi a cercare il prezzemolo che non ricordo dove l’ho piantato”.