La politica vista dai poveri: At-tuwani
La mattina del giorno dopo il nostro arrivo a Gerusalemme partiamo alla volta di At-tuwani, villaggio di qualche centinaio di abitanti, situato nelle colline a Sud di Hebron, nella zona C della Cisgiordania sotto il diretto controllo delle forze di occupazione israeliane, ai confini del deserto del Negev…
Sono risolutamente nel campo dei perdenti
(Mahmoud Darwish, poeta palestinese)
Ci serviamo dei furgoni vecchi e rumorosi su cui possono salire i palestinesi e percorriamo le strade – da noi le chiameremmo trazzere – tra posti di blocco volanti, discariche a cielo aperto e stazioni di transito dei furgoni immerse nel nulla: l’indicazione di coloro che ci guidano è quella di avere pazienza, il viaggio sarà lungo.
At-tuwani dista da Gerusalemme neanche 60 km se prendessimo l’autostrada, riservata agli israeliani, che costeggia il muro: tempo di percorrenza neanche un’ora. E, invece, ad ogni fermata cambiamo furgone: Bettlemme, Hebron, Yatta, finalmente At-tuwani dove giungiamo nel primo pomeriggio.
Scendiamo nello spiazzale antistante un piccolo Pronto Soccorso donato dai tedeschi, chiuso: in un primo momento non vedo il villaggio, ma soltanto una distesa di terra arsa dal sole, pietre, qualche albero con poche foglie, un asino bianco e delle capre. Inizio a notare le variazioni di marrone e grigio: sono ai piedi del villaggio che si inerpica su una bassa collina alla cui sommità hanno costruito la scuola.
La maggior parte degli abitanti di At-tuwani vive in grotte, in case che hanno anche cinque secoli di storia, e in tende: soltanto due case hanno il bagno e hanno il divieto tassativo di costruire, persino un bagno!
Risaliamo la bianca strada e ci ritroviamo sotto il tiro degli occhi incuriositi dei bambini del campo estivo.
Gli occhi, i gesti, le parole di colui che ci viene incontro a darci il benvenuto sono tranquilli, ospitali; il sorriso lo riconosco, è quello sornione di noi Siciliani: Hafez, leader del comitato popolare di resistenza non violenta di At-tuwani nei giorni della mia permanenza al villaggio lo considerai un mio coetaneo: aveva 27 anni, io 44!
Quattro figli a cui pensare, senza lavoro, uno sforzo quotidiano di sopravvivenza, una sigaretta dietro l’altra, in prima linea in ogni occasione in cui hanno da difendere il loro diritti, la loro nuda vita.
Un sorriso cordiale e distratto, venato di tristezze e frustrazioni.
La sera siamo invitati a bere il te nella casa più grande del villaggio: ci sistemiamo in un’ampia stanza con tappeti e cuscini a terra, illuminata con lampade a petrolio – avevano subito il distacco dalle linee elettriche che li costringeva a utilizzare un generatore soltanto per il tempo di lavarsi e mangiare la sera.
Anche le donne e i bambini partecipano all’incontro: soltanto gli uomini possono parlare, le donne possono ridere… Se fosse stato un vertice diplomatico sarebbe stato fallimentare, dato lo scarso numero di parole scambiate. Tanti sguardi e sorrisi, il te da bere e il tabacco da loro coltivato – maleodorante e spacca polmoni – da fumare.
Mi ero preparato un bel discorso in inglese che, secondo la mia immaginazione, avrebbe dovuto fare seguito al loro lungo racconto di soprusi e violenze subiti – sottrazione di terra e di acqua, distruzione di pozzi e cisterne, uccisione di bestiame e avvelenamento dei campi, abbattimento di alberi di ulivo, attacchi notturni e intimidazione dei bambini che vanno a scuola – e alla loro richiesta di solidarietà. Niente di tutto questo: ci chiedono di noi, da dove veniamo – al mio pronunciare la parola “Sicilia” annuiscono e i gesti e i commenti mi rimandano che ci siamo riconosciuti –, se ci è piaciuta la loro “capitale”, Gerusalemme, e ci augurano un buon soggiorno.
Dormiamo a casa di Hafez che, lungo la discesa – attorno a noi un buio e un silenzio irreali, per i nostri parametri occidentali – ci indica in lontananza “la nostra collina lussureggiante”. La vedrò il giorno dopo, una piccola e dolce collina che, con il suo verde scuro, stona con il fumé del villaggio: era un bene comune degli abitanti di At-tuwani e di quelli dei villaggi limitrofi. I coloni israeliani hanno pensato bene di stabilirvi un insediamento illegale e di recintarla per impedire ai palestinesi di potersi anche soltanto avvicinare.
Ad At-tuwani l’unico luogo di ritrovo è la scuola, che all’occasione si trasforma in sala conferenze e il cortile in campo di calcio: è lì che custodiscono e costruiscono il loro futuro, sotto gli occhi vigili e i modi professionali di maestre che con il loro foulard in testa sembravano avere più di 15 anni.
La vita lavorativa nella comunità è scandita dai ritmi delle stagioni – pastorizia e agricoltura – e dal lavoro in nero in Israele da parte degli uomini che, in una società patriarcale, sono gli unici che possono spostarsi.
Le donne si sono riunite in cooperativa e fabbricano manufatti tessili che poi rivendono nei mercati limitrofi, vedendosi sempre più accettare il ruolo di protagoniste della vita politica e sociale del villaggio a fianco degli uomini.
Le ultime battaglie che hanno vinto, con l’aiuto di ONG internazionali e israeliane, sono state il riallaccio alla linea elettrica e l’accantonamento del progetto di costruzione di un muro che gli avrebbe impedito di collegarsi con l’unica strada che porta a Yatta, la città più vicina. Battaglie vinta attuando una resistenza non violenta, l’unica alternativa contro la migrazione, l’espulsione, la deportazione – o la morte.
La legge che vige a At-tuwani, come in tutta la Cisgiordania, è quella che gli israeliani considerano, a secondo delle circostanze, più conveniente per loro: legge in vigore all’epoca dell’Impero Ottomano, legge in vigore durante il Mandato britannico, legge israeliana.
Sono stati disattesi tutti gli accordi, le risoluzioni, le promesse: la situazione per i palestinesi peggiora in ogni angolo di quello che “non sarà mai” lo Stato della Palestina.
La questione palestinese scolorisce a slogan da utilizzare senza più lo sforzo di intravedere tra le parole, dei corpi accartocciati, delle voci soffocate, degli alberi bruciati: un’intera popolazione a cui hanno violentemente sottratto il passato e il futuro, costringendoli a costruire quotidianamente il loro presente.
Essi hanno smesso di attendere la venuta di qualcosa o qualcuno che possa modificare la situazione: ormai puzza di ipocrisia lo slogan “Due popoli due stati” per una questione demografica e territoriale irrisolvibile, fermo restando l’attuale contesto politico mediorientale.
E l’idea di un unico stato aconfessionale in cui tutti i cittadini sono uguali è una storia da libro Cuore.
E, tuttavia, queste donne e questi uomini resistono!
Il pericolo per chi esiste nello spazio politico della periferia è che “in vicinanza del limite” la conciliazione tra il permanere di una emergenza quotidiana che si iscrive sulla propria carne e l’anestetico della propaganda di un’attesa di un evento riparatore/risolutore mostra la sua violenza: l’abitare tra l’immaginario colmo di speranza e la realtà colma di penuria si configura nel segno della rassegnazione, della disperazione, dell’immobilismo, della paura.
La prospettiva sociale è quella del compromesso, del ricatto, della rinuncia ai propri diritti, delle regalie, dei favori, o della fuga – fisica o patologica.
È questo il filo rosso che collega le periferie del mondo con i nostri quartieri e le nostre periferie.
Attraversando via Plebiscito, nello storico quartiere di San Cristoforo a Catania, mi immergo tra bassi abitati inumiditi dalla pioggia, case ed edifici chiusi e semidiroccati, annuso l’aria del quartiere reso periferia dal degrado sociale e osservo volti che attendono che qualcosa cambi per volontà altrui, che qualcuno dia qualcosa di quello che gli spetterebbe in quanto cittadini.
Sugli scalini posti a fianco del Gapa, mi siedo e mi chiedo che cosa rende diversi volti pur simili, come quelli di At-tuwani e quelli di San Cristoforo.
Il volto di Hafez, abitante di At-tuwani, e il volto di Giuseppe abitante a San Cristoforo hanno qualcosa in comune: tesi, preoccupati, controllati, determinati, fieri, stanchi, attraversati da una miriade di microinquietudini. Eppure continuo a percepire una qualche differenza.
Certo, il contesto politico è completamente differente: lì c’è una guerra di occupazione a bassa intensità che dura ormai da più di quarant’anni; qui da noi, no. C’è soltanto una mafia e una borghesia affaristica, clientelare, inetta, compromessa con i poteri mafiosi, che tiene sotto ricatto migliaia di donne e uomini con la falsa promessa che qualcosa cambierà.
Intreccio i ricordi dei volti osservati ad At-tuwani con la vista di quelli di San Cristoforo e sento che la differenza non sta nei singoli volti, ma nel loro insieme.
Nella lontana Palestina hanno messo in comune la fatica, il loro sguardo è rivolto in un’unica direzione, avendo già alle spalle il bivio di una possibile alternativa alla lotta di resistenza non violenta e avendo in spalla, ognuno di loro, il fardello della responsabilità per sé e per gli altri. Le spalle sono doloranti, l’urlo in gola è feroce, l’eloquio gentile e premuroso.
A San Cristoforo gli sguardi sembrano spaesati davanti al bivio, come se ognuno avesse un orizzonte tutto suo da osservare: chiusi nel loro guscio con l’illusione che sia guscio d’ostrica!