La maestra, i camorristi e i bambini Rom
Barra, San Giovanni, Ponticelli: periferia est di Napoli
Un tempo zona industriale, oggi territorio senza alcuna nuova vocazione, in cui abita una popolazione più giovane della media cittadina, ma anche meno istruita e con un tasso di disoccupazione più elevato. Negli ultimi trent’anni l’area ha subito trasformazioni radicali: nuovi rioni di case popolari, corpi estranei rispetto al tessuto sociale storico, torri e palazzine tirate su con materiali scadenti che la mancanza di manutenzione ha reso in breve tempo fatiscenti e insalubri.
I piani di recupero urbano, gli annunci di nuove infrastrutture (a opera del pubblico o del privato, ugualmente inconcludenti), la riconversione delle fabbriche, le migliorie per l’edilizia, la lotta a una criminalità di fatto incontrastata, sono diventati presto stanchi rituali a cui non crede più nessuno.
Nel frattempo, come accade in altre periferie metropolitane, nei numerosi interstizi creati da un’urbanizzazione sregolata si sono insediate comunità marginali, che il resto della città tiene accuratamente lontano da sé.
Marisa Esposito lavora a Barra come dirigente in una scuola primaria che ospita novecento alunni. È entrata nella scuola pubblica negli anni Ottanta, prima come insegnante in una scuola dell’infanzia a Ponticelli, poi in una scuola elementare a san Giorgio a Cremano, infine in un istituto alberghiero dove ha insegnato francese per otto anni.
«Ho cominciato a Ponticelli, in una scuola del Rione Santa Rosa – racconta – Eravamo insegnanti giovani, entusiaste, quasi tutte della zona. Rompemmo il sistema delle sezioni e della maestra unica. I bambini erano divisi in gruppi e giravano per i laboratori che funzionavano per tutto il giorno. Erano molto stimolati, anche se venivano da rioni modesti. Le famiglie ci rispettavano, ci ascoltavano, e noi le rispettavamo.
Di questa esperienza decennale non è rimasto nulla: alcuni insegnanti vinsero il concorso da dirigenti, altri furono trasferiti. La platea degli alunni non è cambiata, quel che è cambiato, e me ne accorgo anche nella scuola che dirigo a Barra, sono le famiglie. Spesso alla cura si è sostituito il “ben avere”, i bambini devono possedere tutto ma nessuno li ascolta; hanno genitori bambini ai quali le loro mamme preparano ancora la prima colazione, e nei casi più drammatici non riescono nemmeno ad alzarsi per accompagnarli a scuola».
Da vent’anni Marisa collabora con la Nea, un’associazione che opera nel campo della cooperazione internazionale e dello sviluppo umano. Un incontro che risale ai primi anni Novanta, durante la crisi del Kosovo, quando a Ponticelli incrociano i loro destini tre diverse comunità: gli albanesi, i rom di origine jugoslava e gli africani provenienti dall’Africa occidentale, in particolare dalla Costa d’Avorio e dal Burkina Faso.
Si insediano tutti nei cosiddetti Bipiani, due complessi di container – posti uno di fronte all’altro sulla stessa strada – costruiti per accogliere gli sfollati del terremoto del 1980. Abitazioni fatte con pavimenti, travi e soffitti in amianto, che i napoletani abbandonano appena ottenuto un posto nelle nuove torri di edilizia popolare. Anche se alcuni, esclusi dalle assegnazioni, fanno ritorno mescolandosi con gli stranieri.
«La Caritas mi parlò delle condizioni disastrose di questi immigrati – racconta Marisa –, così raccolsi cibo e indumenti e li portai con la mia auto nei Bipiani. Organizzai una serie di pranzi con le comunità e cercai di capire come si poteva aiutarli. Gli africani erano giovani, singoli, con tanta voglia di socializzare. Con loro cominciammo un corso di italiano. Gli albanesi invece erano famiglie, più difficili da avvicinare, i loro figli avevano imparato l’italiano seguendo la televisione in Albania».
I bambini rom e quelli albanesi vengono inseriti a scuola nel 57° circolo. Alla fine degli anni Novanta i minori stranieri iscritti nelle scuole elementari e medie di Ponticelli risultano il 2,6% del totale, la percentuale più alta degli iscritti in città. I rom però, dopo un percorso incompleto alle elementari, si fermano puntualmente alle medie, non sempre preparate per assicurarne l’inserimento rispettando la loro identità e la cultura di provenienza.
Negli anni successivi quasi tutti gli stranieri, soprattutto gli africani, lasciano i Bipiani. Ma la voce tra gli immigrati è girata e i nuovi arrivati vanno a rimpiazzare i partenti.
Nel frattempo ai rom della ex Jugoslavia si aggiungono quelli provenienti dalle aree più povere della Romania. Occupano interamente uno dei due villaggi di Bipiani, ma nel 2003 il comune li manda via per abbattere l’intera struttura.
Sull’area pare che fosse previsto un complesso di appartamenti con servizi per la classe media, ma ancora oggi il terreno risulta abbandonato. Il “villaggio” superstite invece è sempre al suo posto, con i container cadenti e imbottiti di amianto, e una popolazione eterogenea di albanesi, africani e, in minima parte, napoletani.
I rom, dopo lo sgombero del 2003, si disperdono lungo via Argine. Sorgono così nel giro di qualche anno una decina di campi spontanei, infoltiti periodicamente dalle ondate di rom sfrattati dalle altre periferie.
Circa mille persone, quasi la metà dei rom presenti in città, insediati sotto i cavalcavia oppure a ridosso di discariche abusive, in baracche di legno prive di servizi igienici dove per riscaldarsi si bruciano materiali recuperati tra i rifiuti e, quel che è peggio, i pneumatici usati che i rom smaltiscono in cambio di pochi soldi, e poi la plastica che riveste il rame dei fili elettrici, che viene rivenduta a tre euro al chilo. Dai dintorni dei campi, di notte e di giorno, si sprigionano alte colonne di fumi malsani.
Con il tempo la presenza sempre meno discreta dei rom innesca la reazione di chi vive intorno. Nascono comitati di cittadini, vengono presentati esposti, interrogazioni e anche petizioni al sindaco da parte dei consiglieri della zona, mentre si segnalano isolati episodi di intolleranza, aggressioni e incendi. Le associazioni di quartiere provano a fare da cuscinetto tra la popolazione circostante, le istituzioni e i rom, ma le proposte di individuare strutture di accoglienza alternative falliscono a causa di veti incrociati, lentezze burocratiche o scarsa funzionalità delle soluzioni.
Gli elementi che preparano l’esplosione si accumulano giorno dopo giorno. La scintilla che scatena il pogrom di Ponticelli è però la notizia che una giovane rom avrebbe tentato di rapire il figlio neonato di una donna che risiede in un complesso di case popolari.
Il 13 maggio 2008 si registra il primo attacco con le molotov nel campo rom di via Petri. Quel giorno è prevista anche una manifestazione indetta dai comitati civici, esasperati dall’inerzia dell’amministrazione.
Sul posto affluiscono le prime telecamere, qualcuno blocca il traffico mentre qualcun altro si stacca dalla folla che si va ingrossando e dà il via agli assalti incendiari. L’arrivo delle volanti non ferma i roghi, che continueranno per tutta la notte e, con sistematicità, nei giorni successivi, finché delle baracche non resterà più traccia.
I rom si danno alla fuga, dopo aver stipato in fretta sui tre ruote tutti i propri averi. Nelle stesse ore appaiono sui muri del quartiere dei manifesti dal titolo eloquente: “Via gli accampamenti Rom da Ponticelli!”. Portano la firma del Pd locale.
«Quel giorno ero a scuola – racconta Marisa –, gli operatori della Nea mi chiamarono: “Qui stanno bruciando tutto”. Mi precipitai e capimmo subito che c’era un disegno, non erano azioni spontanee. Cominciammo a fare il giro dei campi dicendo a tutti i rom di andarsene. In una baracca trovammo un gruppo di donne spaventate che pregavano…
Quella sera il comune reperì degli alloggi a Poggioreale e a Pianura, dove molti rom vivono tuttora. La maggior parte di quelli che abitavano lì, circa seicento persone, fecero perdere le loro tracce. Alcuni oggi sono tornati. Solo nella mia scuola, per esempio, ci sono trentacinque bambini rom. Dove c’erano i campi non è sorto nulla, c’erano ipotesi di valorizzazione che non hanno avuto seguito. In questo caso, credo che la camorra sia stata usata da qualcun altro come braccio operativo. Altrimenti che problemi avrebbe la camorra con i rom? La camorra vuole guadagnare, punto e basta. I rom pagavano anche per attaccare un filo abusivo…».
La scuola che adesso dirige, Marisa l’aveva conosciuta in veste di operatrice della Nea, avendo curato per anni la scolarizzazione dei bambini rom. Ora è tornata come direttrice.
«Prima sulla questione dell’integrazione non c’era molta apertura – dice –. Adesso si respira un’aria nuova, lo dicono gli operatori. Le risorse sono poche e vanno ripartite per l’eccellenza ma anche per chi ha più bisogno. Il comune spende i soldi per mandare questi bambini a scuola ma poi non interviene sul contesto in cui vivono. In questo modo, i nostri sforzi rischiano di restare vani».