La lotta per strappare alle mafie i simboli del potere
C’è un libro del 1962 (“Mafia e politica”, di Michele Pantaleone, Einaudi) che molti politici moderni dovrebbero leggere. E soprattutto ex ministri quali Roberto Maroni e in particolare Angelino Alfano, che hanno partorito il nuovo Codice Antimafia entrato in vigore nell’ottobre scorso. Cinquanta anni fa Pantaleone individuava perfettamente i meccanismi anche simbolici del potere mafioso e le relazioni con la politica e le imprese. Ma non lo hanno letto quel libro i politici del terzo millennio o se lo hanno fatto lo hanno bellamente ignorato. Perché nel nuovo Codice Antimafia, testo affrettato, forzato e imposto dall’ex Guardasigilli prima di divenire segretario del Pdl, viene dato un colpo mortale all’impianto e all’efficacia della legge La Torre.
E’ evidente la forzatura fatta dal governo Berlusconi nell’iter di approvazione, visto che ha totalmente ignorato le 66 osservazioni critiche formulate dalla Commissione giustizia del Parlamento. Risultato? Attraverso una serie di cavilli e imprecisioni tecniche o dall’entrata in vigore del codice si sono congelate buona parte delle confische in iter. Facendo un esempio, fra tanti, si obbliga l’autorità giudiziaria a confiscare i beni entro due anni e mezzo dall’avvio del procedimento, e nel caso in cui il termine venga superato, cosa che accadrebbe puntualmente per beni di grande rilevanza visto che solo una perizia dura in media due anni, Alfano prevede che si debba restituire il bene al mafioso, impedendone di fatto per sempre la confisca.
Inoltre la neonata Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati si troverà nei prossimi mesi a farsi carico di 11 mila casi con un organico di 30 persone e senza risorse economiche. E ancora irrisolto il ruolo delle banche che mettono una serie di vincoli e intralci sia nei sequestri che nella gestione operativa post confisca di aziende visto che la maggior parte dei beni mafiosi (sarà un caso?) hanno una bella ipoteca sul groppone.
Senza poi parlare di chi lavora in un’azienda che viene sottoposta a sequestro. In pratica si costringe con il nuovo codice i magistrati a una scelta: restituire i beni che non si è riusciti a confiscare nei 30 mesi previsti, oppure mettere in liquidazione le grandi aziende, chiudendole e licenziando gli impiegati. Come dire a chi mafioso non è “con la mafia si lavora con la legalità no”. Ed è proprio su questo aspetto che la Fillea Cgil ha promosso un appello pubblico e proposte una serie di modifiche che tutelino i lavoratori anche attraverso ammortizzatori sociali finanziati grazie al riuso e garantiscano sviluppo economico e sociale. Perché i beni confiscati siano risorsa e luogo di buon lavoro.
Scheda
ALCUNI DATI SUI BENI CONFISCATI
Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie sono 12.064 gli immobili, i terreni e le aziende sottratte alla criminalità organizzata in Italia. I dati, aggiornati al primo marzo 2012, confermano una netta superiorità dei beni confiscati nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa: Sicilia, Campania, Calabria e Puglia da sole ospitano l’80% dei beni. È possibile trovare beni confiscati in tutte le regioni d’Italia, a esclusione di Valle d’Aosta e Umbria. Di sempre maggiore rilevanza è la presenza di beni confiscati, soprattutto aziende, in Lombardia, Piemonte, Emilia e Lazio. Sui 3.364 beni che l’Agenzia ha attualmente in gestione, gli altri 8.700 sono stati destinati a finalità sociali o istituzionali, 2.178 sono gravati da ipoteca bancaria; dunque il 60% dei beni, ad oggi, è inutilizzabile. Singolare è il caso delle aziende: sono circa 1.537 con un aumento del 10% rispetto al 2010. Tra i settori più inquinati spicca il terziario, che vanta il triste primato del maggior numero di aziende confiscate (più del 50%), a seguire il settore edile (27%) e quello agricolo e alimentare (8%). A complicare il quadro c’è il dato sulla distribuzione territoriale delle aziende confiscate: più di una su due è collocata tra Sicilia (37%) e Campania (20%), a seguire la Lombardia (13%), Calabria (9%), Puglia (7,7%) e Lazio (7,6%). Secondo una recente audizione parlamentare del direttore dell’Agenzia, il prefetto Caruso, circa il 90% delle aziende è destinato al fallimento. L’Agenzia nazionale, però, non è in grado di fornire il numero dei lavoratori e delle lavoratrici che dopo il fallimento di queste aziende hanno perso il lavoro. Secondo la Cgil non sarebbero meno di 30.000 persone dall’82 ad ora.