La lotta per strappare alle mafie i simboli del potere
Dalla villa a Casal di Principe all’hotel nel milanese…
Le mafie hanno due obiettivi principali: accumulare denaro e beni e attraverso questi testimoniare il proprio potere. E i beni hanno un valore ben maggiore di quello strettamente economico perché assumono un carattere simbolico fondamentale per l’identità mafiosa. Dovunque vai è sempre così.
Che sia la villa di Sandokan a Casal di Principe come le terre di Brusca a due passi da Piana degli Albanesi, che sia l’edificio – o l’antico caffé – al centro di Roma come l’albergo nel milanese. Non si tratta solo di un investimento patrimoniale o di una attività di riciclo di denaro sporco, ma della necessità simbolica di segnare la propria presenza e la propria forza in un determinato territorio. Che sia quello di origine o quello di conquista e espansione. “Io ci sono e su questo territorio comando io e faccio quello che mi pare”, questo dicono le mafie acquisendo immobili, beni, attività.
Facciamo un esempio. Quello delle stalle dei Fardazza. Così, con questo soprannome, viene chiamata la famiglia di Cosa nostra dei Vitale che ha controllato il mandamento di Partinico in provincia di Palermo per decenni. Gente, i Fardazza, che hanno avuto un ruolo anche nelle stragi del ’92 e un peso fondamentale negli equilibri fra le famiglie del palermitano e quelle del trapanese.
I Vitale, per generazioni, hanno avuto l’ossessione delle vacche. Per loro le vacche, e le stalle illecite e non, sono segno di potere in un territorio con antica tradizione agricola. E quando lo Stato ha iniziato a colpirli confiscando le stalle sono letteralmente impazziti. Non sapendo più come fare sui propri terreni, viste le confische e gli arresti che avevano tolto di mezzo due terzi degli uomini del clan, hanno iniziato a costruire stalle abusive su terreni di altri, condiscendenti o minacciati. Con centinaia di vacche che si spostavano da una parte all’altra della valle dello Jato. Si è ucciso per quelle vacche. E si è tentato di uccidere, come nel caso di Pino Maniaci, direttore della locale TeleJato, che dell’individuazione di queste stalle aveva fatto un punto di onore.
Quando i giovani rampolli dei boss carcerati hanno ceduto trasferendo le vacche in altre zone, per intercessione perfino della famiglia Riina, il loro potere simbolico è crollato e il mandamento è diventato terra di conquista.
Tocca i patrimoni, confisca beni, attività e immobili alla mafia, e la criminalità organizzata perderà consenso, potere e peso contrattuale. Questo aveva capito molto bene Pio La Torre, tornando nella sua Sicilia come segretario regionale del Pci dopo un periodo passato in parlamento – memorabile la relazione di minoranza della Commissione Antimafia del 1976 a sua firma – si rese immediatamente conto che proprio su questo aspetto era necessario colpire la mafia. Togliere i beni ma soprattutto sottrarre i simboli materiali del potere mafioso.
La legge Rognoni – La Torre contiene un concetto fondamentale, prettamente politico, che la mafia non può accettare. Il riuso – o restituzione – sociale dei beni. Quello che è sottratto la società si riprende. Non la politica, non le casse dello Stato. La società, il territorio, le forze positive che attorno al riuso sociale si coagulano. Questo rende rivoluzionaria questa legge. Perché non è semplicemente repressiva. Si va oltre alla definizione “antimafia”. La Torre faceva politica. La legge che porta il suo nome è un grande contributo politico alla società.
Facciamo un esempio di cosa possa innescare in un territorio infiltrato – o meglio, colonizzato – dalle mafie. Quello della Cascina Caccia a San Sebastiano da Po in Piemonte. Assegnata al Gruppo Abele e gestita anche in collaborazione con Acmos e Libera, è stata dedicata alla figura di Bruno Caccia, procuratore a Torino e ucciso dalla mafia nel 1984. Il bene era proprietà di Domenico Belfiore capo della famiglia che uccise il magistrato. Il valore simbolico, se fosse necessario evidenziarlo, è chiarissimo. Se poi in questa cascina si fa lavoro, si producono prodotti agricoli, si fa formazione, innovazione sul piano ambientale, perfino arte, il gioco è fatto. Economia sociale e soldidale. Che è l’unica risposta che uno Stato serio può dare alla cultura mafiosa. E la Cascina prospera, lancia nuovi progetti, diventa punto di aggregazione e informazione fondamentale in un territorio come quello del Nord Italia che sta diventando sempre più obiettivo delle mafie non solo per investire e riciclare il denaro sporco, ma anche per trasferire la propria presenza e la propria feroce cultura del potere inquinando imprese, istituzioni e politica. Quelli della Cascina Caccia sono molto chiari nel definire obiettivi. “Cascina Caccia non appartiene più a una famiglia mafiosa, ma appartiene a noi cittadini, che siamo chiamati responsabilmente a sentirla ‘cosa nostra’”.