La geografia del dopo Ciancimino
L’assoluzione di Mori e Obinu, nelle oltre mille pagine di motivazione della sentenza, è solo un elemento di un panorama molto più complicato di quanto non fosse emerso – almeno ufficialmente – in precedenza, durante e dopo le “rivelazioni” di Massimo Ciancimino
È andata com’era prevedibile. Anzi peggio. Ché le 1322 pagine di motivazioni della sentenza che ha assolto in primo grado Mario Mori e Mauro Obinu, alti ufficiali del Ros dei Carabinieri imputati di non avere voluto catturare il capomafia Bernardo Provenzano il 31 ottobre 1995 a Mezzojuso (Palermo), oltre a smantellare l’impianto accusatorio «incerto, talora confuso ed anche contraddittorio» dei Pm di Palermo, bollano come mentitori i testimoni fondamentali, Michele Riccio e Massimo Ciancimino, chiedono alla Procura di incriminarli per falsa testimonianza e azzoppano due processi iniziati da pochi mesi, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia in corso nel capoluogo siciliano e il cosiddetto Borsellino quater, a Caltanissetta.
Testimone incerto
Succede, quando la pubblica accusa si affida a un testimone (Riccio) che inizialmente non aveva ritenuto credibile, che parla sei anni dopo i fatti e in seguito a un processo che lo vedeva imputato (e condannato) a Genova per la disinvolta gestione di alcuni carichi di droga sottratti all’incenerimento e reimmessi sul mercato (una prassi che al Ros sembrerebbe fosse particolarmente in uso, tanto da aver coinvolto, in un altro processo più recente, persino il generale Ganzer e lo stesso Obinu). Durante il dibattimento, le affermazioni di Riccio sono state smentite da tanti testimoni (fra cui i magistrati Giancarlo Caselli, Teresa Principato, Nicolò Marino, Giuseppe Pignatone e l’ufficiale Cc. Antonio Damiano), incanalandolo verso l’inevitabile assoluzione degli imputati.
Mentre Riccio cuoceva nel suo stesso brodo, Massimo Ciancimino emergeva dalle nebbie di sedici anni di silenzio, anche lui in seguito a un arresto e a un processo (per avere occultato e riciclato i soldi “sporchi” del padre, Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo); dopo due anni e mezzo di allusioni e “messaggi” a mezzo stampa («ho le carte di mio padre…»), alla fine del 2007 Massimo rilasciava una clamorosa intervista al settimanale Panorama: «Nel 1992, lo Stato mi ha offerto una possibilità di riscatto e non mi sono tirato indietro. Il capitano De Donno mi chiese di poter incontrare mio padre per aprire un canale, anticipandomi che l’argomento sarebbe stato quello della cattura dei superlatitanti. Gli incontri durarono tutta l’estate del 1992, subito dopo la strage di Capaci. Mio padre all’inizio era contrario. Avviare una trattativa e poi interromperla significava mostrare la propria debolezza. Tanto che subito dopo le richieste di Riina lo Stato fece un passo indietro. E venne ucciso Paolo Borsellino». Causa ed effetto.
Convocato dai Pm di Caltanissetta (gennaio 2008) e da quelli di Palermo (aprile), Ciancimino jr gli offre le sue “verità”. Poi inizia lo show mediatico giudiziario durato fino all’aprile del 2011, quando la Procura di Palermo lo ha fatto arrestare per calunnia aggravata contro il supersbirro più famoso d’Italia, Gianni De Gennaro, accusato di essere il fantomatico «signor Franco», un mai individuato agente dei servizi segreti in contatto col padre dagli anni 70 fino alla morte (2002) e tuttora in circolazione.
Il vero, il verosimile e il falso
Che il figlio di don Vito mischiasse fatti veri, verosimili e falsi potevano agevolmente comprenderlo gli stessi sostituti palermitani (a Caltanissetta l’avevano capito benissimo), ché nei suoi verbali ogni singolo fatto ha fra le due e le quattro versioni diverse, ma per i Pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, Ciancimino conferma l’ipotetico movente della presunta mancata cattura di Provenzano, la trattativa Stato-mafia; un movente che Ingroia aveva già ipotizzato nel processo per la ritardata perquisizione del covo di Riina, ma i giudici, nella sentenza del 2006, erano arrivati alla conclusione che l’interlocuzione fra Mori e Vito Ciancimino «fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti».
In precedenza, nel giugno del 1998, la Corte d’Assise di Firenze, nella sentenza sulle stragi del ’93, aveva invece stigmatizzato quei fatti: «L’iniziativa del Ros (perché di esso si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione».
Il contesto: Tangentopoli
Ed è probabilmente perché consapevoli di ciò che i giudici di Palermo, già a pagina 81 della sentenza assolutoria, mettono le mani avanti e puntualizzano: «Senza escludere la presenza di manovre torbide, animate da miseri interessi, può, però, dirsi che una interpretazione degli avvenimenti che non tenga conto della peculiarità dei contesti temporali in cui si è operato rischia di essere fuorviante e di fare apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz’altro complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori».
Il contesto: lo svelamento di Tangentopoli che pialla i partiti protagonisti di cinquant’anni di storia e azzera le classi dirigenti; la riforma elettorale in senso maggioritario, a colpi di referendum; e contemporaneamente un’offensiva criminale contro lo Stato, senza precedenti nella storia d’Italia. Così ci scagliano dalla Prima alla Seconda Repubblica.
L’ “aggancio” di Ciancimino
I fatti, come li conoscevamo fino all’avvento di Massimo Ciancimino jr, per ammissione degli stessi protagonisti (don Vito, Mori e De Donno), dicevano: che dopo la strage di Capaci il capitano Giuseppe De Donno agganciò Ciancimino jr affinché si facesse tramite col padre per chiedergli di collaborare alla cattura dei grandi latitanti di mafia (Riina e Provenzano in primis); che dopo la strage di via D’Amelio entrò in scena anche il colonnello Mori, ma l’ex sindaco fu arrestato e non se ne fece nulla.
Secondo l’ex killer Giovanni Brusca, nell’estate del ’92 Riina gli confidò che «quelli (le istituzioni, ndr) si sono fatti sotto e io gli ho presentato un “papello” di richieste lungo così».
In un primo momento (1996), Brusca colloca questo colloquio col boss dopo le due stragi siciliane; poi, durante il processo di Firenze (1998), si mostra possibilista sull’eventualità che possa essere stato tra le due stragi; infine, nel 1999, si dice certo che la consegna del papello e la risposta negativa dello Stato, si siano verificate prima della strage di via D’Amelio. Ed è ammesso al programma di protezione che fino ad allora gli era stato negato.
L’ultima versione di Brusca
In questo contesto, arriva Ciancimino coi suoi pezzi mancanti che si incastrano con l’ultima versione di Brusca, promettendo di completare il puzzle con documenti che confermeranno il suo racconto ma che inizierà a consegnare un anno e mezzo dopo l’avvio della collaborazione, tutti in fotocopia, perlopiù anonimi (dunque di nessun valore probatorio) e spesso assemblati o manipolati all’occorrenza. Cartaccia.
Malgrado la palese contraddittorietà delle propalazioni, un’oculata gestione mediatica delle sue dichiarazioni provoca smottamenti di memoria in tanti soggetti che hanno ricoperto incarichi istituzionali negli anni delle stragi, fino a configurare una seconda fase della trattativa diretta addirittura dall’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro (Claudio Martelli docet).
Più Stato di così, non si può.
La Corte d’Assise di Firenze, nel 1998, prescindendo dalla collocazione temporale della consegna del papello e prima dell’avvento di Ciancimino jr, era arrivata alla conclusione che «confrontando il racconto di Brusca e quello di Mori e De Donno balza evidente che parlano della stessa cosa: uomini, tempi, oggetto tornano con assoluta precisione; o almeno, tornano in maniera tale da escludere che testi e collaboratore parlino di cose diverse».
“Personaggi altolocati”
Il dubbio che possa, invece, trattarsi di cose diverse è venuto ai giudici di Palermo, in seguito alla testimonianza di Giovanni Ciancimino, fratello maggiore di Massimo, a cui don Vito avrebbe confidato di essere stato contattato da «personaggi altolocati» per intavolare una trattativa e che questi non possono essere Mori e De Donno, ché il padre non avrebbe mai considerato personaggi altolocati un capitano e un colonnello: «Si può osservare – annotano i giudici – che la appena riportata indicazione di Giovanni Ciancimino, pur fondata su una sua opinione, non è priva di interesse, giacché essa profila la possibilità che Vito Ciancimino in quei frangenti facesse da tramite fra i mafiosi ed esponenti delle istituzioni diversi dal col. Mori e dal cap. De Donno».
Nuova pista, nuovo mandante
Stando a Massimo, invece, il Ros si sarebbe mosso su input degli allora ministri democristiani Nicola Mancino e Virginio Rognoni; suo padre sarebbe stato informato dal misterioso signor Franco e i Ros avrebbero implicitamente confermato tali mandanti.
Senonché, a un certo punto, l’accusa si imbatte in una nuova pista con relativo mandante: Calogero Mannino, anch’egli ministro, dopo l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) avrebbe temuto di fare la stessa fine e si sarebbe rivolto al capo del Ros, il generale Antonio Subranni, e al dirigente del Sisde Bruno Contrada (arrestato per collusioni mafiose alla fine del ’92 e condannato a dieci anni di carcere) affinché si attivassero per salvargli la vita.
Subranni, stando a ciò che Borsellino rivelò alla moglie e che la stessa ha riferito ai magistrati con diciotto anni di ritardo, sarebbe «punciutu», cioè affiliato a Cosa Nostra. E tutto torna. O no?
La posizione di Subranni
Se Subranni fosse mafioso, considerato che nessun “pentito” ha mai parlato di lui, vuol dire che è stato affiliato in maniera riservata e che la “punciuta” è nota solo ai capi, i soli ad avere interlocuzione diretta con lui (e viceversa).
Se così fosse, non si capisce perché per trattare con Riina abbia attivato una catena di San’Antonio: incarica Mori, che delega a De Donno, che aggancia Massimo, che lo porta dal padre, che parla col dottor Cinà, che riferisce a Riina.
Sul finire del 1992 Vito Ciancimino è incarcerato in seguito al «tradimento», secondo l’accusa, dei suoi stessi sodali (Provenzano, il signor Franco e i Ros) e gli subentra Marcello Dell’Utri, uomo cerniera tra i boss e Silvio Berlusconi.
Una seconda fase in cui l’unica cosa certa è il venire meno del rispetto dei patti da parte di Provenzano, che non ferma le stragi ma continua a godere della immunità concordata, tanto che nel ’95 Mori e Obinu impediscono al colonnello Riccio di catturarlo.
“Non mancano aspetti rimasti opachi”
Le 1322 pagine stilate dal presidente della quarta sezione penale del Tribunale di Palermo Mario Fontana (depositate lo scorso 14 ottobre, tre mesi esatti dopo la conclusione del dibattimento iniziato cinque anni prima, il primo luglio del 2008) smontano l’impianto accusatorio: «Benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato – al di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l’art. 533 c.p.p. – che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura».
«Se fossi un insegnante metterei alla sentenza Mori un 4 meno perché chi l’ha scritta è andato fuori tema», ha sbottato il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, coordinatore del pool sulla presunta trattativa da quando Ingroia ha lasciato la Procura.
E ha chiarito: «Dedicare le prime 800 pagine a un tema che è stato trattato dall’accusa solo come ipotesi di movente e occuparsi solo in minima parte (circa 500 pagine, ndr) del tema principale del processo, cioè la mancata cattura di Provenzano, è un modo curioso che ha scelto l’estensore di scrivere le decisioni».
“Un modo curioso di scriver decisioni”
Osservazione sensata, quella di Teresi, se non si tiene conto che più tre anni e mezzo dei cinque di processo sono stati incentrati proprio sulla «ipotesi di movente» e che, senza la tempestiva entrata in scena di Massimo Ciancimino, il dibattimento si sarebbe concluso all’inizio del 2010 con l’assoluzione dei due imputati; è stata la Procura a trasformarlo in un processo sulla trattativa, sperando di risollevare le sorti di un procedimento ampiamente compromesso.
La stizza del dottor Teresi è d’altronde comprensibile, ché sulla trattativa da maggio è in corso uno specifico processo scaturito dalle dichiarazioni del figlio di don Vito in cui, oltre a Mori, De Donno e Subranni, sono imputati ex ministri e mafiosi, con gli stessi elementi d’accusa appena bocciati. Un processo azzoppato sul nascere.
Il processo di Caltanissetta
Così come, per la parte relativa al movente, è azzoppato il quarto processo sulla strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta, conseguenza della collaborazione di Gaspare Spatuzza: «In questa sede – si legge nelle motivazioni della sentenza – può soltanto dirsi che la eventualità che la strage di via D’Amelio sia stata determinata dall’esigenza di eliminare un ostacolo ad una “trattativa” in corso fra lo Stato e la mafia è rimasta una mera ipotesi, non sufficientemente suffragata dagli elementi acquisiti».
Una frase che la Procura di Caltanissetta non ha mandato giù e ha diffuso una nota in cui sottolinea che «solo la competente magistratura di Caltanissetta potrà direttamente intervenire sugli aspetti che riguardano il barbaro eccidio di Paolo Borsellino».
Dopo avere sminuzzato il movente, tocca a Massimo Ciancimino, testimone dalla «attendibilità precaria», «piuttosto incline alle chiacchiere e alle vanterie», autore di dichiarazioni che «dimostrano la capacità di mentire e la scarsa limpidità del medesimo». I giudici non si fermano alle sole dichiarazioni, ma anche ai «documenti» prodotti: «La inclinazione del Ciancimino ad operare sugli scritti realizzando fotocopie parziali o veri e propri collage risulta incontrovertibilmente da alcuni documenti acquisiti e perfino da alcune, esplicite ammissioni del predetto».
“Le ammissioni di Ciancimino”
Non va meglio a Riccio, le cui dichiarazioni sono bollate come «chiaramente inverosimili», «mendaci», e lui come uno il cui «atteggiamento reticente non è mai venuto meno» e «la cui la cui propensione a distorcere o ad enfatizzare fatti di scarso rilievo per conferire agli stessi significato nell’ambito del costrutto accusatorio appare al Tribunale piuttosto ricorrente».
In conclusione: «Non può che ritenersi priva di ogni riscontro e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto l’affermazione secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, Provenzano era al sicuro da ogni ricerca».
Amen.