La festa e il sogno
Fu come un colpo di cannone, tuonò forte e ci scosse dentro. Quel giorno non lo dimenticherò mai, era il 23 maggio 1992, avevo sedici anni e quella era la strage di Capaci, le immagini trasmesse dalla televisione non erano impressionanti per le lamiere contorte delle automobili, ma per il vagare insensato delle persone attorno al vuoto lasciato dall’esplosione.
L’invisibile avversario non fece attendere la sua seconda mossa, il 19 luglio arrivò la strage di via D’Amelio. Sembrava una partita persa. Al dolore per le vite spezzate si aggiungeva la disperazione della solitudine, resa chiara dalle parole dette con un filo di voce da Antonino Caponnetto, “…è finito tutto!”
Al Gapa nel quartiere di San Cristoforo ci riunimmo per stare insieme, non si poteva restare immobili, parlammo a lungo e poi come era abitudine formammo un grande cerchio, mano con mano in silenzio. Forse perché stretti in quell’abbraccio, forse perché ci guardammo negli occhi, si decise di restare lì per settanta giorni. Quel luogo divenne la casa di tutti. La piccola piazza del quartiere dove poter condividere la rabbia e il dolore, la solidarietà e il gioco sfrontato contro il potere.
Gli anni sono trascorsi, forse troppo velocemente, e siamo qui. Non dove vivemmo quei settanta giorni, ma in un luogo nostro, libero, che ci piace chiamare il “Gapannone rosso”.
Dopo vent’anni una grande festa ci ha riuniti, quasi tutti e tutte. Così come allora c’p stato un grande cerchio, mano con mano, e tanti sorrisi, perché i bambini di allora oggi sono ragazzi, gli adolescenti e i ragazzi di quel tempo oggi sono uomini e donne. Riconosciamo il viso di Mary, che ha due figli e gli occhi di sempre.
Toti la chiama: “Vieni, ti faccio vedere le foto di quell’estate!”. A Mary le brillano gli occhi: “Matri quantu eru nica, e quantu eru tosta!” Tutto è cambiato nelle nostre vite. C’è gente che non si vede e non si parla da tanto tempo: “Ciao Giovanni, sono Liliana e questo è mio figlio Alessandro! È bello essere qui a ricordare e giocare!”. “Anche per me, bello ritrovarti, bello stringerti la mano”.
Il cerchio è grande e le mani si mescolano, si mescolano le parole. E’ un continuo vocìo di: “Come stai? Da quanto tempo? E ora cosa fai nella vita?”. “Ti facisti tuttu iancu!” fa a Toti Tano, il papà di Orazio. A zu Fabio chiediamo: “Chi sta facennu?”. “Non c’è nenti pi ccamora” risponde Fabio.
La festa continua, come sempre tutti hanno portato qualcosa. La cena è pronta! Ci sono le cotolette di Marcella, ed è inevitabile dire a Santina: “Ricordo sempre le tue cotolette grandi quanto un lenzuolo! e ‘a parmigiana ca’ frittata, a’ puttasti?”. E si mescolano il dolce con il salato, i sorrisi con le emozioni. Si formano piccoli gruppi e ognuno ancora ricorda i turni di cucina, di quell’ improvvisata cucina, il russare della camerata, e… “Cu è ca non si lavau i peri a’ stasira?”.
I suoni della festa vengono interrotti dalla voce di uno di noi, che racconta di quando Pippo entrò dalla porta sudatissimo e sporchissimo e: “Ce l’avete un accappatoio? – fece – devo farmi una doccia”.Questo ricordo fa sganasciare Pippo: “Si, è vero – dice – l’accappatoio me l’avete dato, ma era quello usato da Giovanni!”.
Poi il tono di Toti si fa più serio e racconta con parole che uniscono ciò che stato ieri e quello che è oggi: “Le feste di allora sono le feste di oggi, tutto è iniziato per una cosa grave, abbiamo continuato ad esserci giocando, siamo ancora qui con il nostro sogno in festa”.