La favola industriale del “triangolo della morte” siciliano
Trenta chilometri di raffinerie e fabbriche altamente inquinanti: la più alta concentrazione d’inquinamento di tutta Europa
«Viviamo come se ci trovassimo in una stanza chiusa insieme con novanta fumatori. Questa parte della Sicilia è conosciuta come il “Triangolo della morte” perché alla diffusione notevole delle industrie di quegli anni è seguìto un notevole aumento di nascite con malformazioni, leucemie e tumori alle vie intestinali e polmonari. Qui sono presenti tutte le forme d’inquinamento: quello della falda acquifera, quello atmosferico e quello dell’ambiente marino»
Fino alle porte di Siracusa
L’area di cui parla il Dott. Solarino, presidente di Decontaminazione Sicilia e docente di Scienze chimiche all’Università di Catania, è quella del polo petrolchimico siracusano.
Trenta chilometri di costa, da Augusta alle porte di Siracusa, interamente occupata dagli stabilimenti e dalle raffinerie di petrolio. La più alta concentrazione d’Europa.
«Fino al 1982 le industrie sono state prive di controlli: sali di mercurio, cromo, piombo, idrocarburi, pesticidi, oli minerali, ammoniaca venivano scaricati in mare. Non esisteva un interesse a controllare, era il periodo delle tangenti, dello scandalo Isab, delle autorizzazioni facili; per il problema del “mare rosso” furono arrestate 17 persone, funzionari della Enichem, oggi Syndial, per lo scarico in mare di mercurio e sali di ferro, tanto da cambiare il colore del mare appunto in rosso. E’ evidente che il mercurio attraverso i pesci finiva nella catena alimentare, trasformandosi nella prima causa di tumori intestinali e malformazioni congenite».
L’indagine del 1980
L’indagine iniziò nel 1980, quando il medico Giacinto Franco, ex primario dell’ospedale civile di Augusta, e membro di ISDE, Medici per l’ambiente, si rivolse al Pretore. Il medico vide crescere in misura esponenziale gli aborti spontanei e l’imporsi di malformazioni cardiache, all’apparato digerente e a quello urogenitale e un notevole incremento di malattie tumorali. «Era conseguenza certa dell’inquinamento da diossina e furani. Sapevo e decisi subito di non stare zitto, se uno sa e tace per me è complice».
«Tutto cominciò con le ripetute morie di pesce» continua il dott. Franco «davano la colpa alle microalghe e invece scoprimmo che fino a quel momento avevano scaricato in mare di tutto.
Decisi di sottoporre tutte le mie ricerche al procuratore Condorelli che denunziò l’intera giunta regionale e i sindaci dell’area a rischio per tutte quelle autorizzazioni facilmente concesse.
“Poi il giudice fu trasferito”
Per qualche anno le indagini andarono avanti fino a quando il pretore nel 1984 fu promosso e trasferito a Verona e si ricominciò a far come volevano.»
«Alcuni anni fa presentammo una proposta di legge in cui chiedevamo che nei terreni intorno alle industrie venissero vietate coltivazioni di verdure preferendo la semina di piante oleaginose, come girasoli e colze, che producono oli che non finiscono sulla tavola ma che possono essere riutilizzati in impianti di biodiesel, facendo cosi salva la catena alimentare» ci spiega il prof. Solarino, e in effetti nel 2009 con decreto autorizzativo dell’Assessorato regionale all’Industria, si autorizzava il primo impianto per la produzione di biodiesel in Sicilia, che avrebbe dovuto sorgere nell’area bonificata della Syndial.
Stabilimenti obsoleti
Ma la strada si è presentata subito impervia e due anni fa, l’Ecoil, l’azienda romana incaricata alla costruzione dell’impianto, si è vista negare dalla Regione siciliana i finanziamenti provenienti dai fondi europei.
Gli impianti dell’Ecoil non furono ritenuti rientranti tra quelli ad energie rinnovabili e cosi il progetto “Biodiesel Sicilia”, tra mancanze di fondi e ricorsi legali, è rimasto bloccato nei meandri della burocrazia.
Ma l’inquinamento non è il solo problema che affligge quest’area. Il prof. Solarino è fortemente preoccupato per lo stato di sicurezza degli stabilimenti, considerati ormai obsoleti e non a norma rispetto ai moderni standard antisismici.
Alto rischio sismico
«Questa è una zona ad alto rischio sismico. Già nel 1990, a causa di una scossa, un grosso serbatoio spanciò, per fortuna senza aprirsi.
Se ciò dovesse accadere nuovamente, magari con scosse più potenti, questi serbatoi potrebbero collassare, riversando nel suolo prodotti petroliferi facilmente infiammabili che vaporizzerebbero immediatamente formando una nuvola di fuoco e incendiando anche quegli oli combustibili finiti in mare. Le conseguenze sulle persone e sul territorio sarebbero catastrofiche» conclude il professore.
Le industrie chimiche e petrolchimiche RIR – cioè “ad alto rischio di incidente rilevante” – sono ben undici in questo breve tratto di costa.
«Gli impianti non sono mai stati ammodernati. In alcuni casi non si può nemmeno parlare di strutture obsolete, ma semplicemente di strutture che in nessun’altra parte del mondo vengono più utilizzate.
Controlli solo tre volte l’anno
A Siracusa l’attività di monitoraggio viene svolta dall’ARPA, l’Agenzia regionale, dal CIPA, il consorzio fondato dalle industrie, e dall’Enel. Ho fiducia nei controlli dell’ARPA ma questi controlli vengoo effettuati tre volte l’anno per otto ore giornaliere, contro le oltre ottomila ore di produzione. Come può definirsi controllo questo? »
In Italia non esiste una normativa antisismica specifica e la tipologia d’impianti del Polo industriale fu progettata con un carico sismico uguale a quello dei normali edifici civili: ciò significa che, in caso di un forte terremoto o maremoto, questi stabilimenti potrebbero cedere col rischio di causare il più grave disastro ambientale nella storia del Mediterraneo.
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