La città va a fondo e il relitto eccolo qua
La villa era stata costruita nel 1934, dall’architetto Paolo Lanzirotti. In base a una legge sulla tutela del patrimonio urbanistico è vietato abbattere edifici di pregio storico-artistico costruiti da più di cinquant’anni.
I proprietari della villa e un’impresa locale avevano agito per tempo, ben prima della scadenza che avrebbe impedito lo scempio: nel 1977 avevano chiesto al Comune l’autorizzazione a demolirla, per edificare al suo posto un palazzone simile a quelli che circondano villa Bonaiuto, unica sopravvissuta agli anni della speculazione selvaggia degli anni Sessanta.
La giunta presieduta dal sindaco Salvatore Coco – la stessa dello scandalo della refezione scolastica che fu la prima (e ante litteram) amministrazione comunale italiana a finire dentro un processo per Tangentopoli – aveva concesso l’autorizzazione. ma quei lavori non avevano il nulla osta della Sovrintendenza, contraria alla demolizione e dunque subito pronta a mettere un vincolo e a fare un primo ricorso alla giustizia amministrativa.
Sei anni dopo e passata molta carta bollata, nel 1983, il Tar dà torto alla Sovrintendenza e ragione ai privati che ripresentano una nuova istanza: visto che non era ancora passato mezzo secolo, ma “solo” 49 anni – questo il senso di quella sentenza che accolse il ricorso dell’impresa edile – la villa si può demolire.
I tempi della giustizia amministrativa – si sa – sono lunghi e nel frattempo corrono i mesi, siamo al 1984, l’anno dell’assassinio Fava, l’anno in cui scade il mezzo secolo ed entra in vigore il divieto di demolire, ma nessuno sospende l’intervento delle ruspe.
La Sovrintendenza insiste e – non avendolo fatto per i decenni precedenti – mette un nuovo vincolo paesaggistico, considerando la villa parte del patrimonio di verde privato vincolato. Nuovo ricorso di proprietari e impresa e, nel maggio 1985, nuova bocciatura del consiglio di giustizia amministrativa, l’appello della giustizia amministrativa.
La mattina del 5 giugno 1985 entrano in azione le ruspe. Non autorizzate allo scempio, abbattono un quarto di villa e un patio interno. Ma riescono a fare il lavoro solo a metà.
Quel giorno, nella vicina caserma del comando provinciale dei carabinieri, le autorità locali celebravano il rito del 171° anniversario della fondazione dell’Arma.
Un fotografo, arrivato in caserma per fare qualche scatto sulla cerimonia, racconta a un amico quanto aveva visto poco prima a meno di un chilometro sullo stesso viale, giù verso il mare: «Le ruspe si stanno mangiando Villa Bonaiuto».
Un giovane “pretore d’assalto” dell’epoca, Renato Papa, presente alla cerimonia in onore dei carabinieri, ascolta quella conversazione e corre di persona a dare un’occhiata. Poi, torna in ufficio e interviene. Ordina sigilli e fine della demolizione.
Ma è tardi, la violenza è consumata, la villa deturpata per sempre, destinata a restare lì per i decenni successivi. Deturpata e abbandonata. Quando i vigili arrivano con in mano l’ordinanza di stop alle ruspe, un quarto di villa è già demolito.
Solo negli anni successivi, la Regione interverrà e porrà vincoli. Solo davanti al relitto di quel monumento liberty a Catania le autorità porranno vincoli e faranno piani urbanistici per tutelarla.
Ma la tutela, da trenta e più anni, riguarda uno scempio avvenuto. La villa smozzicata sta lì, congelata nella sua distruzione.
La villa Bonaiuto mostra al mondo circostante quanto sia inutile, qui, pensare alla tutela della bellezza e della storia comune. Almeno mentre quella bellezza esiste e prima che sia ferita.
Qui la storia (e la sua bellezza) si rade al suolo con le ruspe. E i ruderi si espongono senza pudore. Senza passato né futuro.