Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: la punta dell’iceberg
Ilaria Alpi, giornalista Rai, e Miran Hrovatin, fotografo e cameraman per l’Alpe Adria, la Videoest e in quell’occasione per il Tg3. La loro vita si intreccia in Somalia, tra Mogadiscio e Bosaso: un Paese, in quegli anni come oggi, in guerra civile. Entrambi avevano seguito quella punzecchiante voce che ti spinge a partire perché devi sapere, devi vedere coi tuoi occhi, devi raccontare.
È proprio a Mogadiscio che sono stati uccisi: era il 20 marzo del 1994. La zona per i giornalisti era diventata pericolosa. Ma sono rimasti uccisi perché erano giornalisti o sono rimasti uccisi perché erano nello specifico i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin?
Scorrendo i documenti che riguardano il caso Alpi-Hrovatin, si scopre che anche in questo delitto, come in molti altri della storia italiana, ci sono più domande che risposte.
È certo che Ilaria e Miran sono stati uccisi perché avevano scoperto qualcosa che nessuno doveva sapere.
Ilaria era in Somalia perché stava seguendo dei soldi, precisamente 1.400 miliardi di lire, provenienti dal Fondo italiano per la cooperazione per l’Africa, fondato nel 1985. Questo denaro era stato utilizzato per costruire infrastrutture e per dare impulso all’economia somala. Ma in che modo aiuti un Paese in difficoltà costruendo un’autostrada nel deserto?
Altri soldi erano stati destinati all’acquisto di pescherecci sulla carta donati al governo somalo, ma nella sostanza intestati ad una società privata di nome Shifco, il cui proprietario è Omar Mugne.
Probabilmente Ilaria trovò documenti che provavano che l’Italia, ufficialmente collaborava nell’operazione dell’Onu per ristabilire la governabilità in Somalia, ufficiosamente fomentava la guerra civile, trasportando le armi tramite questi pescherecci. Ma le armi fornite dall’Italia, come venivano pagate? Con una sorta di baratto: lo smaltimento di rifiuti tossici. Ecco cosa c’è, presumibilmente, sotto l’autostrada nel deserto.
Ilaria e Miran stavano indagando su questi traffici e nello specifico sul sequestro della Farah Omar, uno di questi pescherecci, quando sono andati a Bosaso, e di questo hanno parlato anche col sultano Mussa Bogor, proprio prima di tornare a Mogadiscio. Il sultano, ascoltato in Italia durante l’indagine per il loro omicidio, confermò che Ilaria, durante l’intervista, chiese ripetutamente informazioni sull’autostrada e sulla Farah Omar, e riferì che aveva raccontato alla Alpi che dalla Somalia i pescherecci partivano carichi di pesce, ma tornavano carichi di armi.
Armi e rifiuti tossici: traffici di così grandi dimensioni, che solo le mafie erano in grado di gestirli. E queste non sono congetture, ma certezze emerse dalle indagini e dalle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti.
Ilaria e Miran avevano trovato le prove di qualcosa di grosso, e lo avrebbero reso noto ai cittadini italiani e non solo, intralciando così, molti interessi trasversali.
Il 20 Marzo, di ritorno da Bosaso, mentre erano in auto verso Mogadiscio Nord, furono uccisi entrambi. Con loro c’erano una guardia del corpo, illesa e scomparsa, e l’autista Sid Abdi, anche lui illeso.
Nessun rappresentate delle autorità italiane in Somalia andò sul luogo dell’omicidio. L’unico italiano presente, Giancarlo Marocchino, era un informatore di tutti i giornalisti che stanziavano a Mogadiscio, ma la sua posizione è sempre stata dubbia. Su Marocchino gravavano vari sospetti: il primo era che fosse un trafficante d’armi, il secondo era che fosse coinvolto nella morte di Ilaria e Miran. C’è, infatti, un rapporto del capo della polizia di Mogadiscio, che racconta come i due giornalisti fossero usciti da un garage di Marocchino (che ne possedeva vari in quella zona), poco prima dell’agguato; lo stesso colonnello che redasse il rapporto, sentito a Roma, parlò di Marocchino come l’assassino.
Questo colonnello, come la maggior parte delle persone che compaiono in questa storia, è morto in circostanze non chiare.
Il processo per il duplice omicidio ha portato ad una condanna: Hashi Omar Hassan ha sparato.
Ma chi sono i testimoni? L’autista e un uomo chiamato Jelle. La sentenza di primo grado assolse Hassan, vedendolo come capro espiatorio di tutta questa vicenda.
Questa tesi è avvalorata da alcune circostanze: Jelle, che si rese irreperibile durante il processo, in una conversazione telefonica registrata dopo la condanna definitiva di Hassan, disse di essere stato pagato dalle autorità italiane per accusarlo, e di voler ritrattare la sua dichiarazione.
L’autista, durante le prime indagini, cambiò la sua versione e solo in un secondo momento indicò Hassan come l’assassino. Rientrato in Somalia dopo la fine del processo, è morto anche lui in circostanze misteriose: le autorità somale riferirono che voleva cambiare nuovamente la sua versione dei fatti.
I due testimoni oculari non possono più essere considerati così credibili. E il terzo testimone oculare? La guardia del corpo, mai trovata, dov’è?
Tanti indizi dunque, e poche prove, perché omissioni e depistaggi, le hanno fatte sparire.
Persino il certificato di morte di Ilaria redatto subito dopo la morte, è stato ritrovato solo a molti anni di distanza.
Domande. Infinite domande per una storia piena di buchi voluti.
Più si scava in fondo a questa storia, più si comprende che si riescono a vedere solo le punte dell’iceberg.
Questo iceberg diventerebbe di certo più visibile se si trovassero i block notes, la macchina fotografica e le cassette registrate di Ilaria. Non sono spariti tutti i block notes e nemmeno tutte le cassette: solo quelli chiave, quelli dove c’erano le prove delle scoperte di Ilaria e Miran, quelli dove ci sono le risposte.
Ma per trovare queste risposte bisogna gridare a gran voce una duplice domanda: chi li ha presi? E dove sono adesso?