Il virus non si scorda di Lesbo
Il pensiero di chi è in prima linea.
“Io gestisco un centralino per dare supporto psicologico agli operatori sanitari coinvolti nell’emergenza Covid-19. Noi volontari siamo circa venticinque” spiega Irene Di Stefano, futura psicoterapeuta che ha lavorato con alcune ONG, Save the children, con Medu ed ora con Mediterannea.
“Noi come Mediterranea volevamo aiutare i rifugiati di Lesbo, ma questa situazione non ce lo consente. Non appena sarà possibile spostarsi, penseremo ad un’alternativa” dice Irene.
“Già a gennaio 2020 la situazione a Lesbo era molto tesa: i governi che si erano impegnati a modificare le politiche migratorie, ma non hanno mantenuto la parola data. Il numero di richiedenti asilo è raddoppiato negli ultimi mesi, ma nonostante ciò l’Unione Europea non è intervenuta. E così a febbraio 2020 è successo l’inevitabile: le autorità greche e i richiedenti asilo avevano gli stessi problemi, ma che non potevano essere risolti allo stesso modo.”
“La Turchia ha soffiato sul fuoco chiudendo i confini portando al culmine le richieste di asilo al confine. Gli abitanti locali hanno boicottato le Ong bloccando l’accesso dei volontari, dei giornalisti al campo Moria”- continua Irene- “ È stato appiccato un incendio che ha distrutto il centro comunitario One Happy Family, punto di riferimento a Lesbo, che fornisce diversi servizi: dal barbiere, al giardino comune, alla palestra, alla biblioteca. Lo stesso incendio ha causato la distruzione della Scuola della Pace.”
Alla paura della guerra si somma quella del virus, c’è un bagno ogni centosessanta persone, una doccia ogni cinquecento e una fonte d’acqua ogni trecentoventicinque: “È impossibile mantenere il lavaggio frequente delle mani e la distanza di sicurezza. Ci si sta muovendo per fare evacuare i campi di Moria per prevenire la formazione di un focolaio vista la densità di popolazione. Già prima del virus a Moria la gente moriva di fame e la loro salute erano compromessa. In questo quadro quindi fa molta più paura l’arrivo del virus.”
Questo disagio non è circoscritto solo alla Grecia, ma anche: “Lo Yemen, il Bangladesh, i campi di prigionia in Libia e la Siria”- afferma Irene- “Se ci impediscono di soccorrere è finita, la salute non è solo sopravvivenza fisica, ma anche mentale. Lavorando con Medu al Cara di Mineo ho potuto fare esperienza, ricucire le ferite non è semplice, c’è bisogno di tempo per rielaborare e comprendere il proprio vissuto segnato a vita. Ciò che mi ha colpita di più è la loro resilienza: la prima cosa che hanno fatto i naufraghi dell’Aquarius, una volta sbarcati a Valencia, è stata ballare” ricorda Irene sbalordita.