Il triangolo del lavoro
Nello stabilimento di Napoli si fanno tutti i pezzi della lavatrice – motori, contrappesi, cablaggi – e poi si assemblano.
Alla catena di montaggio, tra un pezzo e l’altro, c’è ancora il tempo per leggere tre righe dell’Unità o di avvantaggiarsi qualche minuto, accelerando il ritmo, per fumarsi una sigaretta in pace (era ancora permesso in reparto). «C’era meno stress, ma le condizioni di lavoro erano pessime. Alcuni reparti sembravano il Vietnam, si saldava a mano, partivano scintille da tutte le parti, in verniciatura la gente spruzzava a mano, lo stesso in smalteria. Riuscimmo a far venire le ispezioni della medicina del lavoro. L’azienda venne condannata. Alcuni reparti furono smantellati, altri modernizzati».
I reparti sono misti, con tante giovani donne a lavorare. L’azienda le prende minorenni e le adibisce ai collegamenti elettrici, un lavoro di fino, adatto a mani piccole e svelte. È una grande novità. «Anche se io ero molto chiuso all’inizio – dice Guarino –, non avevo ancora acquisito quella mentalità industriale, quel saper parlare alla gente che considero uno degli strumenti fondamentali del sindacato». Sua moglie la conosce in fabbrica, nel reparto montaggio. Nativa di Tripoli, madre siciliana e padre veronese, tornata in Italia ancora bambina.
«Ebbero la casa a Barra, nel rione detto dei profughi. Da sposati andammo ad abitare là anche noi, in affitto. Lei si licenziò al secondo figlio. All’epoca si poteva ancora vivere con un solo stipendio».
Nel frattempo Luciano è tornato a scuola. In fabbrica c’è un solo turno, dalle sei alle quattordici. Quando esce va direttamente al corso serale dell’Augusto Righi, uno dei primi del genere, dove ritrova operai dell’Italsider e della Sofer di Pozzuoli. Si diploma in elettronica nel ’75. L’azienda fa il suo nome per un posto al controllo qualità. Dalla catena si sposta in laboratorio, a verificare l’efficienza dei pezzi finiti; più tardi passerà in progettazione, diventando uno specialista del ramo elettrico. Lo stesso anno diventa delegato sindacale degli impiegati.
La fabbrica degli anni Settanta è parte integrante di un territorio in fermento, una miriade di fabbriche piccole e grandi dove lavorano migliaia di persone. C’è la zona del pastaio, quella delle concerie, la Snia Viscosa, la Gentile, fabbrica metallurgica, la Mecfond, l’Ansaldo, la Cirio, c’è il settore chimico-petrolifero e quello del vetro.
«Una piccola azienda di grafica – racconta Guarino – venne occupata dagli operai. La sera prima la polizia li fece sgomberare, allora la mattina uscimmo tutti dallo stabilimento e li aiutammo a rioccupare. Ci fu una carica, alcuni arresti e feriti. Tre giorni dopo venne proclamato lo sciopero generale in tutta la zona industriale, una grande manifestazione sul corso San Giovanni…».
Negli stessi anni però la fabbrica comincia a cambiare: certi pezzi conviene farli produrre altrove, ci sono aziende che ne fanno a milioni con costi molto più bassi. Via i contrappesi. Via anche la fonderia che faceva le calotte in ghisa. Restano i cablaggi, con i fili che vengono da fuori e si assemblano dentro.
Si passa da milleduecento a novecento addetti, con il rituale corollario di scioperi e agitazioni. Si profila addirittura la chiusura per l’alta conflittualità dello stabilimento. Poi Borghi venderà agli olandesi della Philips e negli anni Novanta arriveranno gli americani della Whirpool, con annesse rivoluzioni tecnologiche e riduzioni d’organico.
Quando Luciano va in pensione, nel 2009, sono rimasti in settecento. Qualche anno prima, in fabbrica è entrata sua figlia. I due maschi invece, lavorano uno alla progettazione di macchine robotiche in un’azienda di Caserta, e l’altro, da poco laureato in legge, come vigile del fuoco a Salerno.
La Whirlpool è diventata una fabbrica di assemblaggio, all’interno restano l’ufficio progettazione e l’ufficio acquisti. Dopo tanti anni di lavoro, il pensionamento rischia di essere vissuto come uno shock. Luciano però non smette di frequentare la fabbrica. Non libera la scrivania.
«La mattina, anche se non arrivavo in orario, mi facevo vedere». E con la scusa di svuotare la stanza, dà una mano ai più giovani. E rende quel passaggio meno traumatico.