Il triangolo del lavoro
Ponticelli, Barra e San Giovanni, i tre vertici di quello che un tempo era il triangolo industriale napoletano
Non passa giorno senza che venga fuori qualche notizia sulla riqualificazione prossima ventura. Il porto, l’università, il palazzetto dello sport, certi giorni addirittura si parla del nuovo stadio. A chi ci vive resta una vita quotidiana da periferia sempre più lontana dal centro e, in quelli che la coltivano, la memoria di ciò che si è stati.
In quegli anni, le origini contadine, i confini degli antichi casali, si fondono rapidamente in un’unica identità industriale, un vissuto che accomuna migliaia di persone, un’epopea di lavoro duro e conflitti sociali ma anche di ottimismo, di occupazione diffusa, di relativo benessere. «Qui c’erano due cose che facevano scuola – racconta Antonio Silvestri, operaio in pensione –, il partito comunista e la chiesa. E poi le strutture orizzontali del sindacato».
Silvestri, una vita alla Ignis di via Argine, descrive così quell’atmosfera: «La gente era aperta, disponibile. Si anteponeva l’impegno pubblico alla famiglia. Si veniva presi, coinvolti, si usciva la mattina e non si sapeva a che ora si tornava a casa. Accanto alle grandi industrie c’erano le piccole aziende. Quando si minacciava un licenziamento o c’era da sostenere un’occupazione, partivamo subito: sciopero, manifestazione… Ai tempi del colera facemmo lo sciopero alla rovescia. Uscimmo dalle fabbriche e andammo lungo via Argine a pulire i lagni che erano diventati delle fogne a cielo aperto».
In quegli anni la Ignis diventa un punto di riferimento, forse perché fabbrica di giovani, portatori di valori nuovi. «Arrivammo anche a millequattrocento addetti. A mensa c’erano ancora i tavoli separati per operai e impiegati, ma nel ’69 venne sancito l’inquadramento professionale unico, un fatto rivoluzionario. Io che ero quinto livello operaio dovevo essere capace di leggere un disegno, di portare avanti un sistema di macchine…».
Alla Ignis, ma anche altrove, si mette in discussione l’organizzazione del lavoro. «La catena di montaggio non ti permetteva di migliorare. Entravi cretino e dopo trent’anni cretino eri, non avevi imparato niente. Ci battemmo per farci assegnare mansioni meno ripetitive. Per esempio, alle presse invece di premere semplicemente un bottone, se cominciavi a montare lo stampo, poi imparavi a regolarlo. E alla fine ci siamo riusciti. Abbiamo cambiato il mondo, abbiamo cambiato le fabbriche… Quando siamo partiti, il novanta per cento degli operai avevano il terzo livello, alla fine quasi la metà erano diventati specializzati».
Anche Luciano Guarino, classe ’49, ha lavorato alla Ignis di via Argine per più di quarant’anni. Famiglia del centro storico, padre ferroviere e madre impiegata alla Manifattura Tabacchi, da ragazzo, ogni estate, faceva l’apprendista in bottega presso un orefice di piazza Carlo III.
Poi il trasferimento in una casa Iacp a Cavalleggeri d’Aosta, e un vicino impiegato alla Ignis che gli confida il modo sicuro per farsi assumere: bisogna andare direttamente a Varese, anzi a Comerio, alla sede centrale dell’azienda; ci si mette davanti ai cancelli e si intercettano i dirigenti che passano, magari con un po’ di fortuna il capo del personale: il posto è assicurato. In quegli anni il mercato degli elettrodomestici è in piena espansione.
Luciano ottiene il suo obiettivo appena in tempo per veder nascere le battaglie sindacali del ’69. «La Ignis è stata una delle prime fabbriche con la commissione interna. C’era un’organizzazione sindacale di stampo maoista, attiva e numerosa. I neoassunti come me però non scioperavano, altrimenti rischiavamo il licenziamento immediato».