Il rimorchio non porta al largo
Rimorchiatori, petroliere, su e giù fra porti e rade. Ventiquattr’ore nella vita di un gruppo di lavoratori del mare
Il capitano posiziona delicatamente il suo rimorchio da cinquemila cavalli alle spalle della Kriti Jade, petroliera battente bandiera greca venuta a depositare il suo carico nel porto di Fos-sur-Mer (dipartimento Bouches-du-Rhône).
Di solito, Pierre guida la sua barca seduto, con una mano sola, sulla postazione di comando con le gambe accavallate. Ora è in piedi, per controllare al meglio la manovra, sorveglia il nostromo che si dà da fare sul ponte di poppa, impegnandosi per appicicarsi quanto più vicino possibile alla nave greca, mostro galleggiante di trentamila tonnellate. Di fianco a lui, sulla passerella, Jean-Pierre si occupa dei macchinari, joystick alla mano. Sylvain, il nostromo, si affaccenda con un casco targato “BZH” (la sigla della Bretagna, n.d.t.) calcato in testa. È impossibile trasferire direttamente un cavo d’acciaio di cinquantadue millimetri di diametro da una imbarcazione all’altra.
Il nostromo comincia quindi a far dondolare un capo più sottile, che permetterà di far passare il cavo che trainerà la petroliera fino al porto. «Quando si tirano barche grosse, se sei in alto mare, si usa una catena» specifica Sylvain.
Quattro uomini sul ponte
Sul ponte della Kriti Jade, quattro persone si occupano delle manovre. Sulla passerella, Jean Pierre brontola: «Guardali bene, uno solo tra loro conosce il mestiere. Gli altri… quelli sono sempre più incompetenti, ci sono sempre più incidenti».
Pierre ci tiene a precisare: «Si sbattono per avere uno stipendio, niente di più. E poi è normale, dal momento che non hanno avuto nessuna formazione o quasi. Non è colpa loro».
Una volta che la petrolierà è stata correttamente attraccata, il rimorchio fa ritorno al porto. Mentre Jean-Pierre si rimette ai fornelli. «Ho girato le melanzane», ci confida Yves, il capo meccanico, beffardo. «E per quale motivo hai girato le mie melanzane?!».
Ci accomodiamo in cabina per proseguire la conversazione. Dal primo gennaio 2001, la legislazione comunitaria permette a ogni membro dell’Unione Europea di assumere una importante percentuale di marittimi stranieri e agli armatori di pagarli secondo le tariffe in vigore nel loro paese di provenienza.
«Si rivolgono a dei mercanti d’uomini – è il termine che usano nell’ambiente – per formare i loro equipaggi», spiega il capitano. «In Francia, si assumono romeni, perché molti di loro parlano francese. Guadagnano poco più di trecento euro al mese. Ma i salari più bassi sono quelli dei cinesi e degli africani, ottanta euro mensili. I ragazzi non sono motivati, restano a bordo per sei mesi o un anno, intascano il loro gruzzolo e la maggior parte di loro non rimette più piede su una nave».
Secondo lui, un buon numero degli incidenti marittimi – Erika, Bow Eagle, Jolly Rubino, Ievoli Sun – sono collegati a queste pratiche di dumping sociale. Le statistiche dei Lloyd confermano: l’80% degli incidenti marittimi sono dovuti a errori umani.
In confronto, Pierre, Yves, Jean-Pierre e Sylvain sembrano a casa loro. Il rimorchio è la Rolls-Royce della navigazione, dove, spesso, i marinai vengono a terminare la loro carriera. Certo, lavorano ventiquattro ore di fila, ma un giorno su tre per due mesi, poi prendono tre o quattro settimane di riposo. Imbarcati sotto bandiera francese nonostante l’armatore spagnolo, pagano le tasse in Francia, dove pensione e copertura sociale sono assicurate. Pensione che prenderanno da qui a due anni, a cinquantacinque anni. Altro fatto interessante: questi quattro se la intendono tra loro come vecchie faine, cosa abbastanza rara su una barca. Quando ha presentato i suoi complici di bordo agli inviati di CQFD, Pierre non ha esitato un momento a prenderli in giro: «Questi tre, contano assieme non so quanti figli, e sei divorzi!».
“Qualcuno arrotondava così…”
Tuttavia, gli resta un rimorso: quello di non poter più navigare tanto spesso al largo. Sono un po’ come dei pesci d’alto mare che sguazzano in un acquario da salotto. Sylvain conferma: «Per fare avanti e indietro tra la rada e il porto ci vuole una settimana». E non c’è bisogno di stuzzicarli molto perché si mettano a raccontare delle loro navigazioni di lungo corso.
Qualche anno fa, Pierre lavorava su una vinacciera, una nave cisterna dedicata al trasporto del vino: «Facevamo il carico in Italia, Creta, Grecia o Algeria, non meno di tre milioni di litri per volta. A bordo, c’era la battaglia del giallo (il pastis, liquore all’anice) contro il rosso! Non eravamo pagati troppo bene, allora qualcuno arrotondava vendendo fuori mano dei “campioni” del carico. Pare che, se aggiungi un po’ d’acqua di mare al vino, non si veda nelle analisi. Bisogna dirla tutta: i marinai hanno sempre un po’ trafficato con quello che gli capitava sotto mano».
Sylvain, il bretone del gruppo, è uno di quei marinai innamorati del mare. Infaticabile, afferma di non aver mai avuto «la sensazione di andare a lavorare», tanto ama il suo mestiere. Eppure «il diporto, non riesco a capirlo. La barca serve a lavorare. In Bretagna, ci salgo sempre con l’impermeabile, e sposto casse e reti». Quando, qualche mese fa, Pierre ha annunciato un bel giorno che bisognava andare a prendere una barca a Malta, Sylvain era al settimo cielo: «Una settimana di navigazione davanti a noi! Sono andato immediatamente a comprare due pacchetti di sigarette per il viaggio». Che delusione quando è venuto a sapere che non era prevista nessuna partenza per La Valette! Il capitano si era inventato questa missione per fare un dispetto agli interinali imposti a bordo dal padrone, che ricalcitrano quando si tratta di navigare.
Pierre tempera un po’ la situazione descritta dal suo nostromo, affermando che non è un caso se sono su un rimorchiatore: il lavoro è meno duro che altrove.
“Quindici, sedici ore al giorno”
«Quando si prende il mare, si sgobba dalle quindici alle sedici ore al giorno. C’è il brutto tempo da gestire, come anche le relazioni coi membri dell’equipaggio, che possono essere molto difficili. A volte ci sono dei veri bastardi che non ci pensano due volte a giocarti dei brutti tiri. Quando ero allievo ufficiale ho visto da vicino il Bateau Ivre (il Battello Ebbro, da una poesia di Rimbaud): tutti a bordo erano completamente ubriachi, capitano compreso. La barca percorreva la sua rotta nonostante l’equipaggio non fosse capace di reagire e io mi ero chiuso in cabina per non farmi insultare da chi da ubriaco diventava molesto. Beh, è strano, ma mi è successo davvero».
“Sbattuti come in una lavatrice”
Ma in questo lunedì 31 marzo, l’equipaggio è piuttosto di buonumore. Il programma della giornata non è quello di tutti i giorni: devono rimorchiare, dal porto di Fos fino all’estremità della laguna di Berre, una chiatta carica di blocchi di cemento. É un transport test: l’imbarcazione, alla fine, si porterà dietro dei materiali per la costruzione del reattore a fusione nucleare di Itar, sul sito di Cadarache (diparimento di Bouches-du- Rhône). Tutto l’equipaggio è sul ponte. Jean Pierre ha un problema con una leva difettosa – il freno dei cavi non si blocca –, ma l’emergenza rientra rapidamente. Una volta che la chiatta è solidamente attaccata, attraversiamo la rada scortati da due vedette della guardia costiera – il convoglio “nucleare” lo richiede.
«Vengono sbattuti come in una lavatrice, lì dentro. Qualcuno finirà sicuramente per sbrattare», si diverte Yves. I marosi bagnano i piedi dei due militari – equipaggiati di casco, giubbotto antiproiettile e mitra – che sono rimasti sul battello.
«Non è ben bilanciata sta’ barca, punta un po’ di naso» scherza il capitano. Due ore più tardi, dopo aver imboccato il canale di Caronte e attraversato Martigues e tutta la laguna di Berre, portiamo il carico a destinazione. Tutto senza colpo ferire: «Oh! Hai visto che parcheggio?!».
Sulla via del ritorno, il rimorchiatore si concede un quarto d’ora di pausa nel bel mezzo di Martigues, dove sbarca la piccola banda. «È la tradizione, quando si passa di qui». spiega Pierre, una volta al tavolo del bar della Marina.
Tornati al molo, Pierre spiega nei dettagli i tiri mancini che sta preparando l’Europa, soprattutto la direttiva sull’accesso ai mercati dei servizi portuali. Proposta per la prima volta nel febbraio 2001, riguarda, tra le altre cose, il pilotaggio, il rimorchio, l’attracco, la manutenzione, lo stoccaggio e il collettame del carico. È favorevole a un aumento della concorrenza nell’insieme di questi servizi.
“Addio salario minimo”
L’idea? CQFD l’aveva già fatta presente nel marzo 2005: “Qualunque impresa straniera facente parte dell’Unione Europea (UE) potrà stazionare e carburare ovunque nell’UE secondo le leggi del proprio paese. Una bagnarola maltese delocalizzata nel porto di Havre, per esempio, non verserà nulla nel fondo delle pensioni o della copertura sociale, non elargirà un salario minimo garantito ai suoi lavoratori, non gli concederà il diritto alle ferie previsto dalle convenzioni”. Anche se questa direttiva è stata rispedita al mittente già due volte, è molto probabile che torni a galla.
Questa riforma non dovrebbe toccare Pierre, che è a qualche passo dalla pensione. Ma, come già in passato, non mancherà di combatterla. Una volta sbarcato definitivamente dal suo rimorchiatore, avrà tutto il tempo necessario.
(Con CQFD – Trad. di Umberto Piscopo)