Il ricatto del lavoro
“O inquinati o disoccupati!”. E’ la solita storia: industriali e politici, lungi dal rimettere in discussione l’attuale pessimo assetto industriale, usano i licenziamenti come una mazza per ridurre al silenzio operai e popolazione. E dividerli fra di loro. C’è chi casca nella trappola. Ma…
“Divide et impera”
LE GUERRE DEI POVERI
LE RISATE DEI PADRONI
E’ successo niente dal 27 settembre, da quando cioè Archi e una parte di Milazzo hanno corso il rischio di finire in un apocalittico incendio causato dalla Raffineria? No, non è successo niente. Neanche i serbatoi adiacenti alle case sono stati rimossi.
Si sa qualcosa del livello di inquinamento raggiunto in zona dopo decenni di lavorazione continua di sostanze pericolose? No, non si sa niente. I tecnici dell’Arpa, l’ente proposto alla vigilanza, già dall’estate comunicavano: “Ci mancano risorse, ci manca personale”.
Hanno fatto qualcosa i politici, hanno fatto qualcosa – almeno per ridurre un po’ i pericoli – gli industriali? I politici, niente. Gl’industriali, si sono mossi. Si sono mossi a modo loro, cioè licenziando le prime decine di operai all’Edipower (la centrale a carbone adiacente alla raffineria).
Secondo le buone regole, hanno annunciato subito che questi licenziamenti sono, per così dire, provvisori.
Si farà un altro impianto al posto di quello da chiudere: un Css, un riciclatore, certo non una fabbrica d’aria pulita. Quando? Domani, dopodomani, prima o poi…
Gli operai hanno picchettato la fabbrica, gli ambientalisti si sono immediatamente scagliati contro la fabbrica nuova, peraltro ancora molto virtuale. I sindacati hano aperto il “tavolo di trattativa” alla Regione, ma al tavolo non si sono presentati né gli industriali né i politici, che evidentemente avevano altro da fare.
Il momento più tragico
Il momento più buffo – o più tragico, secondo i punti di vista – è stato quando nella stessa giornata gli operai sono scesi per strada per difendere la loro fabbrica e gli “ambientalisti” (non molti, stavolta) hanno fatto lo stesso, ma per maledirla.
Per fortuna, i due gruppi non si sono incontrati, sennò le risate dei padroni (che già sorridevano pensando al successo infallibile del loro solito “divide et impera”) sarebbero arrivate al cielo.
Adesso, nel quartier generale dei rivoluzionari – la sala della parrocchia del paese, presidiata dal crocefisso di padre Peppe, grande quanto quello di don Camillo – si organizza la resistenza. Una resistenza tranquilla, apparentemente, senza slogan né grida, ma determinatissima e decisa.
Niente guerre fra poveri, per prima cosa. “Non vogliamo morire di cancro, ma nemmeno di fame senza lavoro”. “Operai e abitanti, uniti!”. “No alla produzione d’inquinamento, vecchio e nuovo, ma sì al lavoro”. E ce ne sarebbe moltissimo, di lavoro, a pensarci bene: qua, per rimettere a posto ciò che il buon Dio ha creato, e l’avarizia ha distrutto, ci vorranno anni e anni, e migliaia di braccia e teste.
Non è facile organizzare una lotta del genere: a volte coloro che hanno le conoscenze hanno difficoltà a portarle fuori dai convegni, in linguaggio comune; chi ha entusiasmo ha difficoltà a comprendere che bisogna parlare, convincere, ascoltare tutti. Non manca quanche ambizione personale (elezioni fra poco), che non aiuta.
Difficile fare una rivoluzione, la semplice rivoluzione del salvare la pelle.