domenica, Novembre 24, 2024
-mensile-Interviste

“Il progetto di Gelli è ancora qui”

La giustizia è ancora sotto assedio? Quali sono gli equilibri, oggi, fra i poteri ufficiali e i poteri “ufficiosi”? Lo chiediamo a uno dei più impegnati magistrati palermitani

Cosa significa fare il proprio dovere di magistrato sotto il fuoco incrociato del potere politico?

Ho sempre creduto che il magistrato debba rifarsi e ispirarsi unicamente ai principi della Costituzione sui quali abbiamo giurato: l’imparzialità e l’eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge. Negli ultimi anni in Italia abbiamo vissuto una organizzata e sistematica campagna di delegittimazione costante della magistratura e, in particolare, di quella parte della magistratura che si ostina a credere che la legge sia uguale per tutti. Ritengo che lo scopo sia abbastanza evidente: far rientrare la magistratura nei ranghi che vorrebbero assegnarle, e cioè di un ordine attento a non disturbare con le sue indagini e i suoi processi chi detiene il potere politico, economico, istituzionale.

Di fatto siamo di fronte ad un sistema politico pronto ad attaccare pesantemente un suo collega come Antonio Ingroia “reo” di essersi definito “un partigiano della Costituzione”.

L’episodio citato è uno dei tanti in cui si è tentato per l’ennesima volta di additare Antonio Ingroia (come in passato è accaduto ad altri magistrati) come fazioso e la sua azione finalizzata a uno scopo di parte. Sono convinto, invece, che l’affermazione del dottor Ingroia sia sacrosanta e che il collega l’avrebbe esternata ugualmente se si fosse trovato in un convegno organizzato da un’altra parte politica. Queste sono le stesse accuse infamanti che, più o meno in maniera diretta, hanno caratterizzato altri momenti della storia dell’attività della magistratura in Sicilia. E questo anche perché molti di coloro che oggi ricordano le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano all’epoca le stesse persone che li accusavano di perseguire scopi politici.

Il parallelismo è realmente oggettivo e soprattutto attuale.

Giovanni Falcone era sulla bocca e nelle parole di molti di questi “autorevoli” politici e opinionisti un “giudice comunista” che voleva sovvertire gli assetti di potere che facevano capo alla Democrazia Cristiana, in particolare in Sicilia. Si trattava, agli occhi di questi “autorevoli” personaggi, di un uomo il cui agire era pericoloso quanto, se non di più, dell’agire dei mafiosi. Di fatto una parte consistente della politica non ha mai sopportato che il controllo di legalità della magistratura si spingesse anche alla verifica della legittimità dell’esercizio del potere politico.

Quanto è consolidata questa linea di continuità fra i progetti della P2 e la riforma della giustizia prospettata dal precedente governo?

Non posso che limitarmi ad essere il più oggettivo possibile evidenziando alcune analogie profonde tra il progetto di rinascita democratica e alcune parti del progetto di riforma costituzionale della giustizia, che segnano una linea di continuità oggettiva tra i due: la separazione delle carriere tra PM e Giudici e, più in generale, per quanto riguarda la giustizia, una netta limitazione dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura, sia nelle forme dell’autogoverno della magistratura, sia sotto il profilo della possibilità, per esempio, di esprimere pareri in materia di progetti di riforme sulla giustizia.

Che peso ha avuto il processo Cuffaro nel nostro Paese?

Una volta tanto un potente al termine di un processo, lungo, articolato e in cui è stata data piena esplicazione delle sacrosante facoltà difensive, è stato condannato e incarcerato. Questo ha un significato: in Italia la giustizia funziona ancora e può essere efficace anche nei confronti dei potenti, i quali se vengono condannati scontano la loro pena, come un qualsiasi altro cittadino. E’ un segnale molto importante (soprattutto in terra di mafia) perché un altro dei pilastri sui quali la mafia ha fondato il proprio potere e consenso sociale è esattamente questo e cioè che mentre la mafia ha la forza di far rispettare le sue leggi e le sue regole, lo Stato non è capace di far rispettare le sue regole nei confronti di tutti, ma solo nei confronti di alcuni.

Analizzando il fenomeno della mafia in quanto tale, quanto è presente nelle sue forme di mafia-militare, mafia-borghese e mafia-economica?

Dalle indagini e dai processi più recenti è emerso che la mafia non solo c’è, ma è ancora molto forte e pericolosa. E’ indubbio che da un punto di vista della manovalanza rispetto alla potenza militare che poteva dispiegare vent’anni fa, Cosa Nostra è in una fase di difficoltà e di crisi. Molti capi militari sono all’ergastolo, molti picciotti, molti uomini d’onore sono stati arrestati, molte armi sono state sequestrate, molta liquidità e comunque molta ricchezza è stata sottoposta al sequestro o alla confisca. In questo momento ingenti capitali anche di origine mafiosa stanno penetrando il tessuto economico siciliano attraverso una commistione con capitali apparentemente leciti, molto spesso frutto di finanziamenti pubblici, anche europei, e molto spesso frutto di importanti finanziamenti bancari. Allora se questa è la fase in cui si trova Cosa Nostra credo che lo Stato dovrebbe avere la forza di adeguare la propria reazione.

In quale modo?

Lo Stato deve rendersi conto, soprattutto nella sua articolazione politica e legislativa, che non si può combattere realmente ed efficacemente la mafia se  non si combatte il dilagante fenomeno corruttivo. E questo perché è proprio attraverso la corruzione diffusa, attraverso i versamenti di ingenti somme ai politici, attraverso le corruttele grandi e piccole nella pubblica amministrazione, che Cosa Nostra trova la chiave d’accesso per penetrare quei mondi della pubblica amministrazione, della politica e dell’imprenditoria.

Quali segnali giungono dall’interno di Cosa Nostra in merito ai rischi di una nuova azione militare contro lo Stato?

Credo che ci siano segnali di difficoltà, soprattutto a livello di esponenti di spicco, di portare avanti una strategia “militare” di contrapposizione allo Stato, anche attraverso omicidi eccellenti o stragi. Quella categoria di uomini d’onore o collusi con la mafia che è sempre esistita (dai tempi dei “facinorosi della classe media” di Franchetti e Sonnino, a quelli del dottore Navarra, di Michele Greco, di Giuseppe Guttadauro, del dottor Cinà ecc.) è una categoria con la quale dobbiamo fare i conti ora e, temo, anche nel futuro se non ci attrezzeremo adeguatamente. A mio parere ci sono teste pensanti che sono sempre in grado, poi, di orientare le strategie imprevedibili di Cosa Nostra.

Così come riportato nel libro, nel documento del 29 ottobre 1943 redatto dal capitano Scotten, ufficiale del servizio segreto britannico, vi erano tre ipotesi di linee direttrici dell’azione che il governo militare alleato avrebbe potuto intraprendere nei confronti di Cosa nostra. La storia racconta che venne scelto il secondo punto, quello della “tregua negoziata” con i capi mafia, che venne privilegiata dall’ufficiale come la soluzione migliore. Alla luce delle recenti inchieste sulla trattativa tra lo Stato e mafia che significato assume questo documento?

Ha un significato storico ben preciso e importante. In periodi storici molto lontani nel tempo da parte di governi estranei alla cultura mafiosa radicata nel territorio siciliano si è realisticamente guardato a Cosa Nostra siciliana non come un fenomeno criminale come gli altri, da debellare con tutta la forza e l’impegno possibile, ma quasi come uno Stato parallelo con il quale trovare punti di mediazione e di “dialogo”. Il sospetto è che ciò si sia verificato anche in epoca successiva con la storia dell’uccisione del bandito Giuliano e in altri momenti (stiamo verificando se anche con il protrarsi della latitanza di Provenzano possa essere avvenuto, o con la trattativa del ‘92/’93), quasi come se una “ragione di Stato” possa eventualmente giustificare un rapporto di “dialogo” di reciproca concessione con Cosa Nostra.

Dopo l’omicidio Lima e la strage di Capaci Cosa Nostra aveva in progetto di eliminare i politici “che avevano tradito”. Era stata avviata (attraverso lo studio delle abitudini e dei movimenti della vittima) la fase preparatoria all’omicidio del ministro Calogero Mannino. Quel progetto però venne improvvisamente accantonato. Al suo posto venne designato Paolo Borsellino quale obiettivo prioritario. Come va interpretata questa “inversione di rotta”?

La chiave per capire l’eventuale cointeressenza esterna a Cosa Nostra del mandato omicidiario nei confronti di Borsellino sta proprio nel capire le ragioni di questo improvviso cambio di rotta. Scoprire questo significherebbe, per i magistrati di Caltanissetta, di Palermo, più in generale per l’opinione pubblica e per il Paese, capire le vere ragioni e, eventualmente, gli altri mandanti della strage di via d’Amelio. E probabilmente non solo della strage di via d’Amelio, ma anche delle stragi del continente del 1993.

Se dovesse essere confermato un depistaggio nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, messo in opera da apparati dello Stato, che ripercussione provocherebbe nell’inchiesta sulla trattativa?

A me preme soltanto ricordare alcuni fatti e non commentare le indagini che stanno facendo colleghi di altre Procure e tanto meno poter parlare di ripercussioni nelle indagini sulla trattativa. Il coinvolgimento nella fase esecutiva della strage di via D’Amelio del mandamento di Brancaccio, dei Graviano, degli uomini di più stretta fiducia dei Graviano (mi riferisco ad esempio a Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia, Cristoforo Cannella) erano stati già consacrati nei processi via D’Amelio ter e, in parte, anche in via D’Amelio bis. Paradossalmente alcuni di questi uomini, compresi i vari Tagliavia, Tinnirello e gli stessi fratelli Graviano, erano stati chiamati in causa anche da quel pentito oggi dichiarato inattendibile in tutto, che era Scarantino. Competerà quindi ai colleghi di Caltanissetta e di Catania capire perché su alcuni aspetti lo Scarantino abbia mentito. Il dato di fatto è questo: il pentito oggi dichiarato giustamente inattendibile è comunque un pentito che, oltre a chiamare in causa alcuni soggetti che oggi vengono ritenuti estranei alle stragi, ha menzionato alcuni mafiosi del mandamento di Brancaccio oggi più che mai pienamente coinvolti e definitivamente condannati per le stragi. Di fatto Scarantino aveva citato anche quel Gaetano Scotto, ritenuto (sulla base di elementi anche raccolti in altri processi) un soggetto, un anello di collegamento tra Cosa Nostra militare e alcuni ambienti dei servizi.

Come magistrato cosa teme di più che impedisca di arrivare alla verità sui mandanti esterni delle stragi?

Temo la solita cortina di fumo, fatta in passato, che ha caratterizzato più volte momenti come questo, che è un mix micidiale di silenzi, disattenzioni, paure e reticenze più o meno diffuse, che purtroppo caratterizzano in parte anche esponenti delle istituzioni e della politica.

Nel libro lei scrive che “Tutti noi siciliani siamo cresciuti con due affermazioni che risuonano costantemente nelle nostre orecchie. La prima, denota il nostro innato pessimismo: ‘Tanto non cambierà mai nulla’. La seconda affermazione è: ‘Ma chi te lo fa fare?’”. A fronte di ciò come si può invertire la tendenza per gettare le basi di una nuova società partendo dalla Sicilia?

In Sicilia è stata sempre particolarmente forte la subcultura dello scetticismo e della rassegnazione, però è stata ed è la terra della ribellione, la terra dell’impegno antimafia, non solo e non tanto di magistrati, poliziotti e carabinieri, ma anche di giornalisti, di piccoli imprenditori, di gente comune che ha saputo e sa testimoniare il proprio coraggio antimafia con i fatti e con la vita quotidiana. Credo che le basi siano già state gettate. La Sicilia da questo punto di vista è veramente il teatro più stimolante, perché è come se mafia e antimafia, mentalità mafiosa e mentalità di ribellione alla mafia si confrontassero a livello più alto, trovassero in questa terra il teatro dello scontro più aspro a dispetto di una politica che troppe volte è stata disattenta a recepire veramente queste istanze di legalità che provengono dalla cittadinanza.

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