Il processo Vulcano
Un processo concluso da mesi, eppure ancora attualissimo per la mappa dei clan nella riviera romagnola
Sette anni a Ernesto Luciano e a Giovanni Formicola. Quattro anni e sei mesi per Vallefuoco. Queste le pene maggiori, contenute nel dispositivo della sentenza letto il 20 dicembre dal giudice Massimo Di Patria.
S’è concluso così il primo processo nato dall’indagine Vulcano del ROS di Bologna sulla presenza camorristica tra riviera romagnola e Repubblica di San Marino, che nel febbraio 2011 portò inizialmente al fermo di 10 persone per estorsione e usura aggravata dal metodo mafioso.
Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia in quest’area operavano tre gruppi criminali, legati a clan di camorra e a casalesi, che sfruttando lo schermo legale di finanziarie sammarinesi (la Fincapital, ora in liquidazione), società di recupero crediti e rapporti con stimati professionisti, prestavano denaro a strozzo ed estorcevano gli imprenditori in crisi, per impossessarsi delle loro attività economiche.
Il Pubblico Ministero della Dda di Bologna, Enrico Cieri, aveva chiesto pene dai 4 agli 8 anni per estorsioni nei confronti di vari imprenditori della zona, evocando l’appartenenza e la vicinanza a clan di camorra e ai casalesi.
Tra le vicende ricordate, il pestaggio “dimostrativo” nel capannone di San Marino, la convocazione al bar di Miramare al cospetto di Zio Peppe, le percosse da parte di Formicola all’esterno dell’albergo riminese Quo Vadis, le “visite” al negozio di un’imprenditrice, a pochi passi da viale Ceccarini a Riccione.
Per quanto riguarda il reato di usura aggravata da metodo mafioso, invece, era stata richiesta l’assoluzione per tutti, in quanto durante il processo non era stato possibile provare il fatto: una delle vittime, Luigino Grassi, non si è nemmeno mai presentata per testimoniare.
Indagini poco coordinate
Nella requisitoria il pm aveva ricordato la difficoltà e gli errori di coordinamento nel gestire le varie indagini che si erano susseguite ed incrociate fra loro, tra Bologna e Napoli, arrivando così a processi frazionati tra loro davanti ai vari Tribunali: in questo, in giudizio abbreviato erano già stati assolti Iavarazzo, Platone, Bacciocchi ed Esposito, e condannato il solo Luciano Luigi, fratello dell’odierno imputato.
La sentenza letta quest’oggi riguarda solo una minima parte di quelle stesse vicende, a cavallo tra settembre 2010 e febbraio 2011. Da qui parte delle difficoltà -altre sono dovute al fatto che molte vicende erano avvenute a San Marino, Stato estero- nel provare e chiedere pene più elevate. Sono stati infatti assolti da tutti i capi d’imputazione i sammarinesi Leonardo Raimondi e Roberto Zavoli, oltre a Amedeo Gallo e Antonio Di Fonzo.
A prescindere da una valutazione sulle singole condanne, si tratta comunque di un’importante pronuncia – dopo quella sanmarinese di luglio per riciclaggio di denaro sporco – che riconosce anche a livello giudiziario la presenza, tra Romagna e la Repubblica di San Marino, di soggetti inseriti nel settore economico-finanziario della zona, pronti a minacciare imprenditori locali senza timore di ricorrere a metodi violenti e tipicamente mafiosi.
Come spesso accade fuori dalle regioni di originaria presenza mafiosa, ad essere contestato è l’art. 7 della legge 203/91, la cosiddetta aggravante mafiosa, ma non il 416 bis.
Come dire: a Rimini e San Marino c’è il metodo mafioso, ma non la mafia. Continui ed espliciti, infatti, erano i riferimenti di alcuni imputati ad ambienti camorristi o casalesi, all’evidente scopo di intimorire maggiormente le vittime.
Assolti i “colletti bianchi”
A parte Agostinelli, imprenditore della zona, mancano invece le condanne per i cosiddetti colletti bianchi, che mano a mano si sono defilati dall’indagine oppure sono stati pienamente assolti dalle accuse.
Di quell’area grigia dove si incontrano e intrecciano i rapporti opachi tra finanza, imprenditoria e criminalità se ne occuperanno in futuro altre indagini.
All’epoca gli arresti suscitarono scalpore, generando soprattutto imbarazzo tra le categorie professionali e un’intera classe politica che fino a quel momento aveva sempre taciuto o minimizzato il pericolo della presenza mafiosa in Emilia-Romagna.
Poco attenta la società civile
Negli anni qualcosa è cambiato: i politici hanno dato segno di accorgersi della mafia, chi per spontaneo ravvedimento, chi per non incorrere in un vero e proprio suicidio politico. Data la poca attenzione e la bassa partecipazione nei riguardi di questo processo da parte di società civile e istituzione, la sensazione è che il lavoro da fare sia ancora moltissimo.