Il processo Vulcano
La massiccia e radicata presenza della camorra fra riviera adriatica e San Marino
Lo sguardo si posa sui giudici, quindi sugli avvocati e sul pubblico. Francesco Vallefuoco, per gli amici “Franco”, presunto boss dell’organizzazione camorristica attiva in Riviera, si trova per la prima volta in aula per il processo a suo carico.
Siamo alla terza udienza del processo Vulcano: quindici imputati (tra cui noti imprenditori sammarinesi e marchigiani, esponenti del clan dei casalesi) a vario titolo per estorsione e usura aggravate dal metodo mafioso si trovano alla sbarra al Tribunale di Rimini. Controllato a vista dagli agenti della polizia penitenziaria, Vallefuoco si sposta da un capo all’altro della cella di sicurezza.
Quasi esattamente tre anni fa, l’operazione Vulcano faceva la sua prima apparizione sui giornali locali. Titoli eclatanti, a caratteri cubitali: “Rimini-Gomorra”, “La riviera romagnola in mano ai casalesi”, titolavano i più prudenti. La complessa indagine della DDA di Bologna, poi sfociata in altri procedimenti paralleli (Staffa, Vulcano II, Titano), aveva portato all’arresto di un gruppo di persone accusate di estorcere denaro ad imprenditori locali.
“Una capillare e frenetica attività”
Ma con Vulcano non si evidenziava soltanto la massiccia e radicata presenza della camorra in questo lembo di terra, da un lato bagnato dal mare Adriatico e dall’altra confinante con la Repubblica di San Marino.
Emergeva, in particolare, la capillare e frenetica attività di gruppi criminali che, presentandosi attraverso la copertura apparentemente legale di società di recupero credito e finanziarie, ne approfittavano per estorcere denaro e prestarlo a tassi usurai alle proprie vittime, imprenditori loali in gravi difficoltà economiche.
“Metodi tipicamente mafiosi”
Metodi violenti e tipicamente mafiosi, dalle minacce di morte alle vere e proprie percosse, finalizzati a rilevare le loro attività economiche, per penetrare sempre più nel tessuto socio-economico del territorio. Denunce? Pochissime.
Quasi nessuna tra le vittime ha denunciato le vessazioni. E Vallefuoco e i suoi hanno continuato indisturbati ad accreditarsi in Romagna.
A margine degli articoli dei giornali erano stati pubblicati diversi anonimi comunicati stampa di amministratori locali, attraverso i quali si lanciava il monito “a fare attenzione”, “a vigilare sulle infiltrazioni (termine utilizzato spesso impropriamente ndr) mafiose”.
Tra quelle righe trapelava copiosamente e in maniera evidente l’imbarazzo della politica locale, silente e immobile per trent’anni, scopertasi infine nuda di fronte all’evidenza e alla gravità dei fatti.
Per decenni l’imperativo era stato negare, minimizzare. Parlare di mafie in Romagna avrebbe inevitabilmente danneggiato il turismo rivierasco e non parlarne affatto stata sicuramente la soluzione migliore. Questo il ragionamento alla base.
E la politica taceva
“La sottovalutazione è una responsabilità quando si è istituzione”, dichiara Ennio Grassi (parlamentare riminese per tre legislature) nel nostro documentario “Romagna Nostra: le mafie sbarcano in Riviera”.
E mentre tra Romagna, Marche a e San Marino la camorra e i casalesi facevano affari, mietevano vittime e intrattenevano rapporti, la politica si svegliava tardi, ancora una volta.