Il partigiano Severino
Era di Licata e lo fucilarono i fascisti in una piazza della Liguria. Lo ricorda il suo comandante di allora, in un povero indimenticabile libro di memorie partigiane
Per quanto l’avessi chiesto più di una volta, mai nessuno aveva saputo dirmi di che paese fosse Severino, nè il suo nome vero: si sapeva soltanto che era siciliano; e anche nella lapide che lo ricorda a Borzonasca, nella Valle dell’Avete, c’è il suo nome di battaglia e basta.
Era capitato a Favale di Malvaro con due compaesani: il Beppe, che catturato poi dai fascisti doveva finire in un « lager »; e il Rizzo che ci toccò allogare in una famiglia di contadini e non si fece più vivo, forse gli era passata la voglia di combattere, o non l’aveva mai avuta.
Severino invece no, perchè era appena giunto, verso la metà di settembre, che già parlava di fare qualcosa, di cominciare a menar le mani: non si poteva stare intanati in quella bàita, diceva, bisognava uscirsene, scorrazzare per la Fontanabuona, in cerca di fascisti…
« In cerca di grane » borbottava qualcuno.
« E sia pure, ma se non cerchiamo grane, mi sapete dire cosa siamo venuti a fare, qui? »
Erano quelli i primi partigiani che, disarmati vivevano della carità della gente del posto, che in quella zona è poverissima.
Finalmente coloro che prima di abbandonare le caserme avevano pensato di nascondere le armi, parlarono di andarle a riprendere; si dovette aspettare il giorno della grande fiera, a Chiavari, e così fu più facile trasportarle sotto il naso dei fascisti, avvolte com’erano in frasche da parere arboscelli da trapianto.
Severino n’ebbe una tutta sua, perchè ne aveva trasportato un bel carico, forte com’era e agile; e anche pronto se era necessario a rischiare la pelle.
Come quando si seppe di camicie nere che erano piombate a Castello di Favale e avevano invaso la casa dov’era rifugiata la famiglia del Comandante; lassù erano giunte notizie assai confuse, chi diceva che avessero preso in ostaggio sua moglie e anche la figlia piccoletta; altri invece che erano riuscite a scappare, ma di preciso non si sapeva nulla, sicché grande era l’apprensione di tutti i componenti della banda.
E fu lui, Severino, a offrirsi di scendere a Favale dov’erano accampati quei porci, per attingere notizie certe. Ricomparve tre giorni dopo, quando tutti l’avevano già dato per disperso: e aveva con sè la Maria e portava a cavalluccio anche l’Enrica, la figlioletta.
L’Enrica poi la condussero lontano, al sicuro: naturalmente non le fecero sapere nulla della sua morte per non rattristarla, e cosi continuava a scrivere e a chiedere del suo Severino; poi, come succede, si stancò e ora che s’è fatta grande, lo ricorda appena e certo non immagina quanto rischiare avesse fatto per lei, povero figlio…
Quando lo presero per la prima volta, era di guardia sul Rondanara e mentre il suo compagno correva ad avvertirci, lui, per dargli tempo, si tenne sul posto, sparando di tanto in tanto qualche colpo di fucile, di modo che quelle canaglie, che avevano una fifa da morire, non osavano più avanzare.
Soltanto quando s’accorsero che aveva terminato le cartucce, allora osarono saltare fuori e circondarlo. Ma poi, come lo portavano giù a Chiavari, fu lesto a spiccare un salto dal camion in corsa e a dileguarsi per i vicoli.
Ritornò a Favale che la formazione s’era spostata a Cichero, ma insistette a rimanere sul Rondanara dov’era la bàita dei Cereghino « i Paccianìn del colle »: una bàita che ci serviva da posto d’avvistamento e dove si faceva tappa negli spostamenti, perchè tutti di quella famiglia erano dalla nostra parte e si davano d’attorno per aiutarci.
Non era certo prudente restare lassù dov’era già stato preso, e il Comandante glielo ripeteva; ma qualcuno bisognava pure che ci restasse, e s’intestò a restarci lui, finché finirono ancora per catturarlo.
Subito che lo riconobbero, lo legarono ben bene e lo trascinarono giù a Chiavari: « Dov’è la tua banda? Dov’è il tuo Comandante? » continuavano a chiedergli: « Dicci dov’è e ti liberiamo ».
« Nun u sacciu » rispondeva. E quelle due parole-nel suo dialetto, « nun u sacciu », furono le sole che poterono cavargli di bocca, la sua risposta ostinata alle lusinghe, alle minaccie, alle botte: le ripetette come una sfida quando lo legarono a una sedia, sulla piazza, con le spalle alla chiesa; e infine come un’invettiva, con rabbia, mentre gli sparavano come a un bersaglio: prima sui piedi, poi aggiustando il tiro, sulle gambe e man mano più alto, finché l’urlo disperato si fece rantolo.
Era l’imbrunire; all’alba la banda Beretta aveva operato un’incursione a Borzonasca e la notizia era giunta a Chiavari mentre lo stavano interrogando. Visto che non c’era verso di farlo parlare, decidettero di ammazzarlo per rappresaglia.
Lo portarono dunque sulla piazza di quel paese e, poverino, pareva I’« ecce homo », legato com’era e tutto pesto di botte: chiese soltanto d’un suo diritto, quello di avere il conforto dei Sacramenti, e gli risero in faccia perchè, dissero, era figlio d’una cagna e all’inferno sarebbe andato ugualmente.
Tempo fa, nell’anniversario della sua morte, mi misi alla ricerca della Sabina dei Cereghino, che non avevo più vista perchè sposandosi è andata a stare altrove; e quando l’ebbi rintracciata le dissi perchè ero venuto, e cioè perchè mi parlasse di Severino e di come l’avessero preso.
Glielo portarono davanti, mi raccontò, e volevano per forza che lo riconoscesse come uno di quei banditi che si aggiravano da quelle parti: ma lei, suo padre, tutti, giurarono e spergiurarono che non l’avevano mai visto, che forse si trattava di uno sbandato…
« Ho conservato il portafoglio che mi dette quando ci fu l’allarme — disse, — e subito corse a frugare nell’armadio finché non lo trovò; era un portacarte di tela rossa, tutto logoro e sfilacciato e conteneva delle fotografie e una carta d’identità, la sua, col nome cognome e tutto: Saverino Raimondo, nato nel 1923 a Licata.
E così dopo tanti anni sono venuto a sapere che il vero nome discostava di poco dal suo di battaglia: Saverino invece di Severino. Forse eravamo stati noi a deformarlo.