giovedì, Novembre 21, 2024
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Il paese degli orchi

Il popolo perbene del terzo reich. O della terza repubblica, se così andrà avanti

Come verremo ricordati, quelli della nostra generazione? Non è una domanda tanto per aria: se fossimo stati invitati a casa del signor Muller a Berlino avremmo avuto il piacere di conoscere una persona educata e perbene, buon padre di famiglia, ottimo lavoratore, con la sua brava Volkswagen, i suoi marmocchi simpatici e la sua famigliola complessivamente felice. Faremmo un giro in centro (traffico ben regolato, molto verde, nessun mendicante) e in genere incontreremmo facce tranquille e soddisfatte di sé. Può darsi che parleremmo di politica: ma fra gente educata, su questo punto, non ci si accalora mai troppo. E poi, la politica, lasciamola a chi la fa di mestiere: noi abbiamo fin troppe cose a cui pensare. Il mutuo, il dentista, il meccanico, la pagella del bambino… Così, sorridendo svagati, si farebbe ora di pranzo: in un locale caratteristico, accogliente e pulito come tutto il resto.

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Più tardi, quando sei ritornato nel tempo tuo, ti accorgi che hai fatto visita alla famiglia degli orchi, nella città degli orchi, nel paese degli orchi. I Muller infatti sono una qualunque famiglia berlinese del 1936 e in quanto tale hanno dirette e personali responsabilità – come oggi sappiamo – nello sterminio di milioni e milioni di esseri umani. Personali? Beh, il figlio dei Muller è militare, ma presta servizio nella Wehrmacht, mica nelle Ss. Hans e Annaliste sono regolarmente iscritti, è vero, alla Hitlerjugend e alla Lega delle Ragazze: ma che fanno di male?

Campeggio, raccolta di abiti vecchi e qualche chiacchiera ogni tanto. E tutto è così normale: lo sguardo dei bambini, la risata di Muller, le strade. Non ci sono mendicanti, non c’è gente strana.

Noi tuttavia sappiamo – venendo da un’altra epoca ed essendo dunque osservatori disinteressati – che il mondo del ‘36 sarebbe stato impossibile senza il consenso dei Muller. E dunque non ci sentiamo autorizzati a stringere le mani che ci vengono porte (borghesemente: perché i Muller, l’abbiamo detto, non sono dei fanatici del Partito) per l’addio. Le mani restano là, protese senza risposta a cercare una comprensione, e i visi sfumano mentre noi torniamo nel nostro tempo.

Nel “nostro” mondo, muoiono trentamila bambini al giorno per cause prevedibili e facilmente evitabili. Seicento milioni di bambini sopravvivono con meno di duemila lire al giorno. Ma questi sono numeri, non vogliono dire niente. Il fatto reale è che, se esci di casa e invece di svoltare da una parte svolti dall’altra, ogni due o tre bambini che incontri uno non ha mangiato. Ogni tanto – diciamo ogni tre o quattro minuti – uno di questi bambini che stai guardando attentamente per capirci qualcosa scivola improvvisamente per terra e non si muove più, perché è morto.

E siamo in un sogno didascalico, ancora, dunque del tutto asettico e pulito. Il bambino per terra, nella realtà, evacuerebbe liquidi disgustosi prima e durante il morire. Da una parte, e tuttavia impossibilitato a intervenire, ci sarebbe un altro essere umano per il quale il bambino morente era il centro del mondo, e che in questi istanti sta vivendo l’orrore puro. Ci sarebbero puzza e grida, e rumori casuali. E tutto questo sta avvenendo davvero, in questo preciso istante, e riusciamo a tollerarlo soltanto facendo finta che non sia così.

Ma inganniamo noi stessi. Il mondo vero è quello. Questo – quello di questo monitor – è meno vero di esso.

Mi fermo qui, perché questo è un ragionamento impossibile da portare avanti oltre un certo grado. Ho bisogno – come te, e come tutti – di un certo livello di rimozione, perché altrimenti mi sarebbe difficilissimo vivere normalmente senza diventare asociale.

Ma quelli che verranno dopo di noi – compagni posteri, diceva Majakowskij – non avranno di questi problemi. Loro vorranno semplicemente studiare scientificamente il nostro mondo, freddamente: perché ormai tanto tempo sarà passato.

Studieranno di noi come noi studiamo gli assiro-babilonesi, apprezzando al loro giusto valore tanto gli inni cosmici ad Enkhidu quanto i prigionieri impalati. E, forse, decideranno che siamo stati più o meno la stessa roba che i tedeschi del trentasei.

Parleranno di Olocausto, come noi ne parliamo. Si meraviglieranno grandemente, con aria di sufficienza, per la nostra acquiescenza. “Come hanno fatto a non ribellarsi?” diranno, senza voler sapere di noi altro che questo.

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