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Il pacifista. Ricordo di Dino frisullo

Senzaconfine. “Tutti amu a mòriri, o prima o dopu – disse il vecchio Bastiano – Però, cer­tuni comu mòrunu s’i puorta ‘u ventu; cert’autri in­veci pesanu comu u’ Mongi­beddu”.

E’ mor­to Dino Frisullo, e non ho mol­to da dire: è un compagno dav­vero che se n’è andato, e ora siamo più soli. Aveva cinquant’anni, siamo nel due­milatrè, e dunque ha lavorato per tutti noi – aveva cominciato nel ’70, con Dp – per un po’ più di trent’anni. Non da leaderino, da politico “di sinistra”: da compagno.

E’ stato fra i primi pacifisti italiani e fra i primissimi (e forse il primo) a orga­nizzarsi insieme agli immigrati. Con loro, ha fondato la prima associazione antiraz­zista, “Senzaconfine”, che ha fatto da modello a tutte quelle dopo.

E’ andato a propagandare la pace, e i diritti dei pove­ri, in Palestina, Bosnia, Albania e in altri luoghi. In Turchia, a Diyarbakir, è stato arrestato per aver di­feso i curdi: è stato rinchiuso in carcere insieme a loro (pri­mo europeo a dividere questa sorte) e al processo ha alzato an­cora la voce contro la repressione anti­curda.

Su questa, e sul­la condizione carceraria e sulla legisla­zione “d’emergenza” turca, Dino scisse un bellissimo libro (“L’utopia incarcera­ta) che gli fu pubblicato da Av­venimenti.

Su altri giornali (anche “di si­nistra”) per un certo periodo ci fu inve­ce un veto for­male, imposto da autorevo­li mandari­ni, alle sue collaborazioni.

(Poche settimane in televisione fa tutti parlavano con gran prosopopea di curdi: Dino Frisullo era l’unico italiano che non solo conoscesse i curdi ma ne fosse co­nosciuto benissimo, e ne fosse amato. Eppure è stato l’unico a non essere invi­tato a parlarne).

La storia della sinistra italiana, per al­cuni versi transeunte, per altri versi me­schina, nella sua parte più nobile e per­manente è la storia degli uomini come Dino. I vecchi socialisti, gli anarchici, i militanti operai, i comunisti clandestini…

Qualcuno ha parlato di apostoli, e l’immagine è esatta. Dino è appartenuto a quella razza. Ingenui, poco “pratici”, ra­ramente a proprio agio nei palazzi, il loro ambiente naturale era la vita dei poveri, la strada. Il loro modo d’esprimersi, un po’ impacciato e timido nei dibattiti uffi­ciali, attingeva a un’eloquenza inaspettata negli appelli di piazza o anche – come nel caso di Dino – davanti ai giudici militari.

In questo, erano antichissimi e profon­di. Dino, che ha lottato per i curdi e per gli operai bengalesi, è sempre lo stesso Dino (con un nome diverso, ma solo il nome) che in altri tempi ha organizzato gli scioperi delle mondine nell’Ottocento o la rivolta dei senzaterra nei latifondi.

Che possa la sinistra italiana, e noi stessi, raccogliere con umiltà e coraggio l’eredità di uomini come questi. La sini­stra dei binghi, dei salotti romani e dei compromessi, oppure la sinistra degli or­ganizzatori, delle testimonianze di vita, dei compagni. Non è possibile essere­ tutt’e due: c’è da fare una scelta.

L’ultima volta che l’ho visto è stato a piazza Vittorio, a Roma: una manifesta­zione di immigrati – organizzata da lui – una delle tante. Piazza di cento popoli, come nessun’altra in Italia: bengalesi, egiziani, curdi, pakistani, cinesi…

Un pezzo di mondo nuovo, operoso, duro: il più multirazziale d’Italia e anche – per chi sa leggerlo – il più italiano. Là, tutti lo conoscevano e l’avevano sentito parlare; molti, in un momento o nell’altro, aveva­no sfilato in corteo insie­me a lui. E anche ora che non c’è più, lui là c’è sempre.

Che c’entra un re sabaudo, con la piaz­za di Dino? Fra coloro che leggono ci sarà sicuramente qualcuno che conosce il nuovo sindaco di Roma. Coraggio, sindac­o, cambiamo la targa di quella piazza. Via quel Vittorio Emanuele, met­tiamo una scritta nuova.

“Piazza Dino Frisullo, compagno”.

E la parola compagno, scrivetela in tante lingue. 

 

(La Catena di San Libero, 9 giugno 2003)

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