Il Novantadue, l’anno del golpe senza golpisti
Ci sono degli anni che iniziano strani, sbiechi, storti. Quello era un anno così
Si capi subito già dal 2 di gennaio scorrendo le agenzie di stampa e i titoli dei giornali. Un putiferio che si era scatenato. Con una frattura nella famiglia socialista europea, fra Bettino Craxi e Francois Mitterand, a causa del ruolo giocato da un certo imprenditore italiano, tal Silvio Berlusconi, implicato nella intricatissima vicenda dell’emittente televisiva privata francese La Cinq. Soldi che apparivano e scomparivano, autorizzazioni che c’erano e non c’erano, diritti che venivano pagati oppure no, fallimenti annunciati e poi rimandati e annunciati ancora. Vi ricorda qualcosa?
Con un “bordello” iniziò il 1992, e si era solo all’inizio, si stava al riscaldamento, ai preliminari.
Da lì a poco dei magistrati milanesi arrestando il mariolo Mario Chiesa avrebbero scoperchiato il verminaio di Tangentopoli mandando a nanna, apparentemente, la prima Repubblica. Pace all’anima sua.
Non era bastata a far crollare il sistema ereditato dalla Guerra Fredda All’Italiana né Gladio né gli armadi di Forte Braschi e neppure le picconate del presidente Francesco Cossiga (con o senza la K secondo vocazione e memoria). Doveva arrivare Mario Chiesa a tirare giù con qualche milione nelle mutande la mirabile architettura della partitocrazia e della corruzione clientelare. Almeno così sembrò. E per anni ci abbiamo perfino creduto.
Anno strano, il Novantadue. Un golpe soft camuffato da rivoluzione senza rivoluzionari. Una roba così è stata quella che ci siamo vissuti inconsapevoli e illusi sbirciando le tettone di Drive In tv in alternativa alle acrobazie grammaticali del nuovo eroe popolare (e poi populista) Antonio Di Pietro. Ormai pezzo di storia, da ricordare quasi con nostalgia.
Tornando a gennaio, mentre i giornali italiani – poco e male – e francesi – tanto e bene – cercavano di capirci qualcosa dell’intreccio di debiti veri o presunti, pacchetti azionari, pressioni politiche e italiane lubrificazioni varie con protagonista il futuro unto dal signore – per vent’anni ci ha dimostrato essere uomo che non potesse accettare di avere altro ruolo-, io, 28 anni e capelli che c’erano ancora sulla testa, stavo cambiando mestiere. O meglio, dopo alcuni anni trascorsi a fare il collaboratore parlamentare smezzato fra due deputati, Gianni Tamino e Edo Ronchi, e aver militato nel movimento ecopacifista e antinucleare (che mica era un lavoro ma un divertimento) tentavo di imparare arte e mestiere. Di fare il salto e mettermi a fare il cronista e basta, che già tentavo di fare nel tempo libero con alterne e risibili fortune. Ero schifato e annoiato da quell’esperienza politica che era iniziata nella maniera più esaltante e si era rivelata, con il tempo, routine intollerabile. Ero stanco dei soldi facili, dei compromessi obbligatori e del politicamente alternativo. “Finisco la legislatura”, mi ero detto. Travolto dal sacro fuoco. Minchiate.
Poi rimasi qualche mese in più collaborando saltuariamente con il gruppo fino a giugno. Non un tempo pieno. Ma entrando e uscendo, un passaggio di consegne che assomigliò inesorabilmente a un accanimento terapeutico. Scappando ogni tanto all’estero, e in particolare in Croazia e Bosnia dove c’erano montagne di storie da raccontare, ma io all’epoca non ero in grado neanche di allacciarmi le scarpe figuriamoci se lo ero per raccogliere notizie, capirle e poi scriverle. Ma ero testardo e arrogante. Pieno di me fino all’ossessione, non è difficile intuire quanto poco fossi lucido e realista nelle decisioni che prendevo all’epoca. Mica si è fessi da giovani per caso.
Comunque, bene o male, avevo fatto una scelta. O meglio la mia arroganza e la mia noia mi avevano giustamente inserito nella lista dei funzionari “trombabili”, tanto valevo tirarsi fuori con stile. Ed ero nel bel mezzo del guado quando venne giù il paese. Con un piedi fuori e uno dentro il grande teatro del palazzo impazzito che si immolava davanti la più incredibile e inedita inchiesta giudiziaria mai tentata in Italia. E del potere che uccideva se stesso. Con il piombo. Con il sangue. Con il tritolo e il sintex.
La mattina che ammazzarono Salvo Lima ero alla Camera. Mi ricordo le facce dei colleghi che lavoravano ai gruppi parlamentari della DC. Mica fu una cosa piccola. Quello era un terremoto. La mattina successiva vidi Giulio Andreotti camminare rigido attraversando piazza Monte Citorio, solo due uomini di scorta, il loden blu scuro, lo sguardo assente. Pensai che il grande uccello predatore aveva perso qualche penna dalle ali. In realtà aveva perso tutto, ma nessuno poteva saperlo allora. Meno che mai un presuntuoso come me. Non l’ho più incrociato, il divino. Lui era già destinato al lento crepuscolo di un processo che lo ha assolto condannandolo alla comparsata nostalgica da Bruno Vespa. Il sangue di Lima non si era ancora rappreso e Andreotti era già uscito di scena. Dalla scena che conta. “Il potere logora chi non lo ha”.
L’omicidio di Lima era l’annuncio della fine di un rapporto fra i poteri reali del paese. E determinò il cambiamento, segnandolo, forse ancor più delle manette ai polsi di Mario Chiesa un mese prima. L’omicidio Lima spezzò il potere di mediazione equilibratrice della corrente andreottiana della Balena Bianca. Senza il collante del divino e dei suoi improbabili pretoriani (Lima, Sbardella, Cirino Pomicino, Evangelisti) la DC non aveva più coesione. Anche se poi quella coesione era frutto di un colossale ricatto o di un ancor più grande bluff messo in atto dal sette volte sette presidente del consiglio. Altro che Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. Quella era una valanga che sbriciolava il potere democristiano tutto. E la DC, che piaccia o no, aveva tenuto in piedi poteri, politica, economia e paese. Per quarant’anni.
E io che facevo? Ovviamente cazzeggiavo. Volevo fare il “cronista”, il narratore, senza avere la minima idea di cosa narrare. E invece di roba da raccontare quanta ce n’era proprio li, dove stavo lavorando sempre più annoiato e disinteressato. Si stava svolgendo il più grande spettacolo della storia repubblicana.
A maggio ormai ero alla fase finale degli scatoloni di 4 anni da portarsi a casa. La mattina della strage di Capaci ero alla Camera. Questioni amministrative, dei soldi da prendere, un paio di borse di carte da portarsi a casa. Mi fermai più a lungo. C’era un’atmosfera strana. Cupa. Si votava per il nuovo presidente della Repubblica dopo le dimissioni del picconatore Cossiga. E a cercare, illuso, il colle c’era lui, il divino Giulio. Le possibilità che fosse proprio Andreotti a conquistare la poltrona del Quirinale erano davvero alte quella mattina. Solo quella mattina. Segui per un paio d’ore il dibattito sulla televisione interna, che allora mica c’erano le dirette web e i rituali del palazzo erano roba da iniziati. Ero esterefatto. Andai a pranzo con un paio di amici da Giolitti. Poi risali ai gruppi, qualche chiacchera, un caffè e uscì.
Mentre stavo per avviarmi verso via Ripetta incrociai un carabiniere che conoscevo da quando avevo iniziato a lavorare lì.
“C’è stato un attentato a Palermo”.
“Quando?”.
“Pochi minuti fa”.
“Contro chi?”.
“Pare Falcone. Ma dicono che ci sono feriti e nessun morto”.
“Meno male”.
Cominciavo ad avere fretta. Dovevo andare a prendere una persona in stazione e volevo posare a casa di mia madre per posare le borse. Presi un taxi. Dalla radio appresi che il luogo dell’attentato era a Capaci lungo l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, e che “il giudice e sua moglie” erano feriti. “Feriti, non morti”, pensai.
Neanche un’ora dopo incontrai per strada una mia amica. In lacrime. Piangeva appoggiata contro un muro con la schiena, le braccia a stringersi una felpa come se avesse freddo. Un freddo terribile. Appena mi riconobbe mi corse incontro e mi abbracciò. Piangendo e urlando. “Sono morti tutti. Hanno ammazzato Falcone. Lo hanno ammazzato, capisci? Siamo in guerra”. Eravamo in guerra.
Quindici giorni dopo ero a Isola delle Femmine, perché sarebbe più corretto dire Isola delle Femmine invece che Capaci per indicare il luogo dell’attentato. Nei miei viaggi balcanici di qualche mese prima di segni della guerra ne avevo visti. Fin troppi, e negli anni successivi li pagai tutti quei segni. E quell’autostrada sventrata era una scena di guerra. Avevano tirato giù un’intera autostrada per ammazzare un uomo. Che altro era?
Scrissi un pezzo, la sera. Che tenni in un cassetto. Iniziava così. “C’è un uomo, un contadino, che lavora a pochi metri dall’epicentro dell’esplosione. Calmo. Come se niente fosse. Rimuove un ulivo strappato via dall’esplosione. Un cappello di paglia in testa, le braccia bruciate dal sole. Ci sono bigliettini carta, fiori appassiti, fogli di quaderno strappati via dal vento. Perduti. Lacrime e pensieri lasciate da centinaia di persone comuni, gente di popolo. Calpesto uno di questi frammenti di carta. Lo raccolgo. C’è scritto qualcosa ma non capisco che. Non ho occhi per leggere, oggi”.
A luglio fu il tempo di via D’Amelio, di un paese che combatteva contro se stesso. E io cominciai a mettere la mia vita sul piatto della bilancia. Di una bilancia truccata.
Nota: Che nel 1992 in Italia si realizzò un golpe è qualcosa di più di una suggestione. Ne sono convinto da anni. La cosa curiosa, però, che di solito quando va in scena un colpo di Stato di solito chi vince si prende visibilmente il potere. In quel golpe del ’92 invece chi ha vinto è rimasto nascosto, e soprattutto ci è rimasto per vent’anni comodamente.