Il muretto di Sara
La rabbia di una perdita
Sara è seduta sul muretto di fronte la sua vecchia casa. Guarda il cellulare, scrive ad amiche varie, posta foto su facebook. Non alza gli occhi dal cellulare.
Si avvicinano Maria e Rosy, sue amiche e compagne delle scuole medie. Sono silenziose e hanno un’espressione neutra, a momenti forzatamente triste, le carezzano la spalla e iniziano timidamente a commentarle le foto, inframmezzando la discussione con lunghi momenti di silenzio.
Sara continua a non staccare gli occhi dallo schermo, è impassibile. Maria e Rosy si guardano.
Cosa si dice di fronte alla morte, alla violenza? Come si consola un’amica che ha subito un’ingiustizia più grande di lei? Quali sono le parole non banali, non stupide, non forzate che possono starci in questi momenti?
“lo sai cosa dicono di mio padre?” dice ad un certo punto Sara, che ha 12 anni ma sembra cresciuta in un attimo, ha lo sguardo fermo: “dicono che in realtà non è morto per la droga ma che lo hanno ammazzato”. Sara da una settimana ha perso suo padre, trovato morto in un casolare dopo giorni dalla scomparsa.
Lei non era abituata alla presenza di lui, quando aveva qualche anno era stato arrestato e lo vedeva sporadicamente, poi in quartiere non aveva una buona nomina, pare non pagasse gli impegni che prendeva. Era uscito da qualche anno e vivevano insieme, lui era suo padre. Non era stato presente per leri e le sue sorelle, ma era suo padre.
“Il magistrato e la gente del quartiere dicono che era niuru (“nero”, ndr), pieno di lividi. E poi chi ce lo aveva portato dassutta (laggiù, ndr)? Come ci era arrivato a morire lì?” le frasi che prova a comporre, le cose che cerca di dire sono confuse e il suo modo di guardare cerca risposte. Non dice molto, dice che lo hanno ammazzato, che gli hanno fatto male, che lei sta male, ma non vuole che le sue amiche lo vedano. Si trucca pesantemente e sta sempre attaccata al cellulare, evita le domande.
La polizia, i magistrati, i giornalisti staranno indagando, si cerca il colpevole, o i colpevoli, i giri in cui si era ficcato, il traffico in cui lavorava. Si parla di traffico di droga, di partite non pagate o forse droga tagliata male, ma l’unica cosa che Sara può capire veramente è che lei adesso è senza padre.
Senza scuola, perché non sempre ci va, senza prospettive, perché quando cresci in un quartiere siciliano e non sai come arrangiarti funziona così, senza protezione. E adesso anche senza un padre.
Rimane seduta sul muretto, propone selfie alle sue amiche o argomenti di pettegolezzo, poi si isola improvvisamente e non parla più. Rosy può capirla, lei ha perso suo padre quando aveva 6 anni, ucciso da una famiglia rivale. E anche lei non sa cosa dire, come non sa spiegare il dolore che ancora oggi prova a volte. “Avevo promesso, quando è morto papà, che sarei andata tutti tutti i giorni al cimitero. Non sempre riesco ad andare e mi sento in colpa”.
I bambini e le bambine cresciuti così, senza un genitore e con la rabbia di una perdita che non sanno spiegarsi, sono tanti, troppi. Chi da piccolo già pensa la vendetta, come Dario che vuole diventare poliziotto per avere la pistola con cui vendicare il padre e lo zio. Chi si porta dietro il dolore e basta, e si convince che la serenità sia un privilegio, non un diritto di ogni bambino. Come Giorgino che parla dei suoi compagnetti di classe che invece hanno mamma e papà, ma proprio tutti e due, e rimane stupito, e ogni tanto si chiede come sarebbe vivere con la mamma, chissà dove si trova, e con il papà, in carcere, invece che con la nonna che si fa carico di lui e di suo fratello.
Tutti si portano dietro la sofferenza di un’infanzia privata, se la trascinano e forse qualche fortunato troverà gli strumenti per sfogarla. Si parla di mafia, di potere, di traffici di droga e di persone e di armi. E in mezzo a tutte queste ingiustizie, un’altra grande e silenziosa e quella di altre vittime di mafia, quelle che non senti, di cui non sempre ti preoccupi, le briciole di un sistema mafioso che colpisce e non lascia niente intero.
Che stanno sedute su un muretto, con la loro rabbia e la loro solitudine, a chiedersi che c’entravano loro e perché non potevano stare tranquilli, e ad aspettare che qualcuno, un giorno, passi di lì e si accorga di loro.