Il mio Novantadue
Era come se fossi ancora a casa, in Sicilia. O, forse, “casa” è dappertutto, ovunque ci siano altre persone sulla tua stessa sintonia. Quel sabato sera, il Villaggio Globale era casa.
Roma, dunque. Lunedì avrei cominciato a lavorare alla Camera dei deputati, collaboratore di Claudio Fava, al gruppo della Rete, il movimento politico nato l’anno prima, dopo che Luca (così chiamavamo il leader) aveva lasciato la Dc e, insieme ad altri notissimi esponenti della vita politica, sociale e culturale italiana aveva dato vita al movimento, fondato su una trasversalità virtuosa, contrapposta alla trasversalità occulta del sistema di potere dell’epoca.
Non ho mai avuto tessere di partito. E la Rete, purtroppo o per fortuna, non lo era, un partito.
Decisi di aderire perché – presuntuoso – pensavo che in quel momento storico ci fosse bisogno anche di me; che anch’io dovessi “sporcarmi le mani” con la politica (lo consideravo un impegno a termine, pochi anni, poi di nuovo giornalista a tempo pieno); che in quel momento così basso della vita civile e democratica del Paese ci fossero le condizioni per invertire la rotta, per spaccare la Dc, per dare vita a un’alternativa democratica di berlingueriana memoria.
Caduto il Muro di Berlino, dissolto il blocco sovietico, sciolto il Patto di Varsavia, poteva e doveva cadere la pregiudiziale anticomunista che per quarant’anni aveva fatto dell’Italia «una democrazia bloccata» e favorito incrostazioni di potere che si erano autoalimentate attraverso il clientelismo e la corruzione diffusi; era l’Italia “stabilizzata” con le stragi e gli omicidi eccellenti.
I tempi per il cambiamento sembravano maturi. E i fatti lo lasciavano intendere. A fine gennaio la Cassazione confermò le condanne del maxiprocesso ai boss di Cosa nostra istruito dal pool di Caponnetto, Falcone e Borsellino, chiudendo la stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove.
Due settimane dopo, l’arresto a Milano del craxiano Mario Chiesa innescò la valanga che rapidamente travolse la classe politica di governo della cosiddetta Prima Repubblica, provocando la scomparsa dei partiti tradizionali. Poi l’omicidio Lima.
Ero ancora a Palermo, lavoravo al gruppo della Rete all’Ars: «Hanno ammazzato Lima!» annunciò qualcuno. E io, da catanese, pensai a Felice, il magistrato, mica a Salvo, il proconsole andreottiano cerniera tra Cosa nostra e l’allora presidente del Consiglio. Poi, compreso che si trattava dell’europarlamentare, subentrò lo sbigottimento. Ricordo una Palermo smarrita, in quei giorni, attonita. Neanch’io mi ci raccapezzavo. Mi era chiaro solo che c’erano duecentomila voti in “libertà”.
Ricordo un breve scambio di battute con Claudio: «Temo che il prossimo possa essere nello schieramento opposto», disse. Non avemmo modo di approfondire. Mi colpì che ipotizzasse un «prossimo», mentre io ero spaesato. E ancora di più lo sarei stato il 23 maggio e, dopo, il 19 luglio.
Tirava aria di golpe. Prima dell’omicidio Lima un ambiguo personaggio legato ai servizi segreti, Elio Ciolini, aveva annunciato una campagna destabilizzante a base di omicidi eccellenti e stragi, nel periodo marzo-luglio.
Il Viminale allertò le prefetture, Andreotti lo bollò come «pataccaro» (era stato condannato per avere depistato le indagini sulla strage alla stazione di Bologna), l’allarme rientrò. Ma la “profezia” s’avverò, nei tempi previsti.
Poi lasciai la Sicilia. Anche le autobomba emigrarono. Però era il ’93 e andrei fuori tema.
Lo ricordo, certo che lo ricordo il mio ’92: pensavo – ero convinto – che, nel mio piccolo, avrei contribuito a cambiare l’Italia. In meglio. E sbagliavo. Oh, se sbagliavo.