venerdì, Novembre 22, 2024
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Il mio Novantadue

Era come se fossi ancora a casa, in Si­cilia. O, forse, “casa” è dappertutto, ovunque ci siano altre persone sulla tua stessa sintonia. Quel sabato sera, il Vil­laggio Globale era casa.

Roma, dunque. Lunedì avrei comincia­to a lavorare alla Camera dei deputati, collaboratore di Claudio Fava, al gruppo della Rete, il movimento politico nato l’anno prima, dopo che Luca (così chia­mavamo il leader) aveva lasciato la Dc e, insieme ad altri notissimi esponenti della vita politica, sociale e culturale italiana aveva dato vita al movimento, fondato su una trasversalità virtuosa, contrapposta alla trasversalità occulta del sistema di potere dell’epoca.

Non ho mai avuto tessere di partito. E la Rete, purtroppo o per fortuna, non lo era, un partito.

Decisi di aderire perché – presuntuoso – pensavo che in quel mo­mento storico ci fosse bisogno anche di me; che anch’io dovessi “sporcarmi le mani” con la politica (lo consideravo un impegno a termine, pochi anni, poi di nuovo giorna­lista a tempo pieno); che in quel momen­to così basso della vita civile e democra­tica del Paese ci fossero le condizioni per invertire la rotta, per spaccare la Dc, per dare vita a un’alternativa democratica di berlingueriana memoria.

Caduto il Muro di Berlino, dissolto il blocco sovietico, sciolto il Patto di Varsa­via, poteva e doveva cadere la pre­giudiziale anticomunista che per qua­rant’anni aveva fatto dell’Italia «una de­mocrazia bloccata» e favorito incrosta­zioni di potere che si erano autoalimenta­te attraverso il clientelismo e la corruzio­ne diffusi; era l’Italia “stabilizzata” con le stragi e gli omicidi eccellenti.

I tempi per il cambiamento sembrava­no maturi. E i fatti lo lasciavano intende­re. A fine gennaio la Cassazione confer­mò le condanne del maxiprocesso ai boss di Cosa nostra istruito dal pool di Capon­netto, Falcone e Borsellino, chiudendo la stagione delle assoluzioni per insuffi­cienza di prove.

Due settimane dopo, l’arresto a Milano del craxiano Mario Chiesa innescò la va­langa che rapida­mente travolse la classe politica di gover­no della cosiddetta Pri­ma Repubblica, provocando la scompar­sa dei partiti tra­dizionali. Poi l’omicidio Lima.

Ero ancora a Palermo, lavoravo al gruppo della Rete all’Ars: «Hanno am­mazzato Lima!» annunciò qualcuno. E io, da catanese, pensai a Felice, il magi­strato, mica a Salvo, il proconsole an­dreottiano cerniera tra Cosa nostra e l’allora presidente del Consiglio. Poi, compreso che si trattava dell’europarla­mentare, subentrò lo sbigottimento. Ri­cordo una Palermo smarrita, in quei gior­ni, attonita. Neanch’io mi ci raccapezza­vo. Mi era chiaro solo che c’erano due­centomila voti in “libertà”.

Ricordo un breve scambio di battute con Claudio: «Temo che il prossimo pos­sa essere nello schieramento opposto», disse. Non avemmo modo di approfondi­re. Mi colpì che ipotizzasse un «prossi­mo», mentre io ero spaesato. E ancora di più lo sarei sta­to il 23 maggio e, dopo, il 19 luglio.

Tirava aria di golpe. Prima dell’omici­dio Lima un ambiguo personaggio legato ai servizi segreti, Elio Ciolini, aveva an­nunciato una campagna destabilizzante a base di omicidi eccellenti e stragi, nel pe­riodo marzo-luglio.

Il Viminale allertò le prefetture, An­dreotti lo bollò come «pa­taccaro» (era stato condannato per avere depistato le indagini sulla strage alla stazione di Bo­logna), l’allarme rien­trò. Ma la “profe­zia” s’avverò, nei tempi previsti.

Poi lasciai la Sicilia. Anche le auto­bomba emigrarono. Però era il ’93 e an­drei fuori tema.

Lo ricordo, certo che lo ricordo il mio ’92: pensavo – ero convinto – che, nel mio piccolo, avrei contribuito a cambiare l’Italia. In meglio. E sbagliavo. Oh, se sbagliavo.

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