Il mio Novantadue
“E come potrei dimenticarlo. Ultimi scampoli di un’indimenticabile estate…”. L’anno delle speranze e dell’orrore, delle nuove politiche e delle stragi nel ricordo di un cronista che di quegli anni può dire “io c’ero”
E come potrei dimenticarlo, il ’92, ché quell’anno mi sono trasferito a Roma. Viaggio di sola andata. Era un sabato di settembre, che nella capitale è gradevole come giù da noi, in Sicilia; ultimi scampoli d’estate, di un’estate che ha fatto epoca. Indimenticabile. Purtroppo.
Sceso dal treno, a Termini comprai Repubblica e un biglietto della metro; un quarto d’ora dopo ero nella “mia” nuova casa, dalle parti di Piazza Vittorio, il quartiere multietnico per antonomasia.
Ero stato fortunato, l’alloggio non avevo dovuto cercarlo, ché quando, in primavera, Claudio s’era trasferito nella capitale, Miki era andato ad abitare con lui liberando la stanza nell’appartamento ammobiliato che condivideva con Riccardo. E quella stanza aspettava me.
Riccardo mi aveva lasciato le chiavi di casa dal portiere, era caporedattore di Avvenimenti, il settimanale con cui collaboravo da un paio d’anni, fra i motivi – le speranze – che m’avevano spinto a cambiare aria.
Riccardo di cognome fa Orioles, è un giornalista militante dell’antimafia, oggi a Siciliani giovani. Ci eravamo conosciuti otto anni prima nella redazione di un altro giornale, a Catania, I Siciliani, il mensile fondato da Giuseppe Fava, uno degli otto giornalisti ammazzati dalla mafia nell’isola.
Lì avevo conosciuto anche Miki (Michele Gambino), che in quel ’92 faceva l’inviato di Avvenimenti, e Claudio (Fava, figlio di Giuseppe), anche lui giornalista, ma che a Roma c’era venuto da deputato, eletto nelle liste de La Rete – Movimento per la Democrazia, «la Rete di Orlando» nell’approssimazione dei media, che la legavano al più noto dei suoi fondatori, Leoluca Orlando, «il sindaco della Primavera di Palermo». Ai Siciliani ero approdato, come tanti altri, in seguito all’omicidio del direttore, nell’84, imparando i primi rudimenti del mestiere e diventandone presto redattore.
La mia camera romana era spaziosa e luminosa, con due grandi finestre che davano su via Tasso, quasi di fronte al Museo della Resistenza sorto negli stessi locali in cui, prima della Liberazione, i nazisti torturavano partigiani, ebrei e patrioti. Spalancai le imposte e, senza nemmeno disfare la valigia, stesi il quotidiano sul letto e mi misi a sfogliare le cronache romane finché una notizia non calamitò la mia attenzione: concerto dei Kunsertu al Villaggio Globale, nell’ambito del Festival internazionale dei popoli. Quella stessa sera. Gratuito.
Non potevo perdermelo. Avevo tutti i loro dischi – i primi in vinile, i più recenti in cd –, li avevo visti/ascoltati dal vivo svariate volte e conoscevo personalmente gli otto musicisti della band composta da quattro messinesi, tre catanesi e uno straordinario cantante palestinese, Faisal Taher, una voce magica. Non immaginavo che fossero così popolari anche fuori dell’isola, lo capii quando mi ritrovai con oltre cinquemila persone festanti e ne fui certo quando tutti intonarono Mokarta, la canzone più nota del gruppo, in dialetto siciliano.