Il mio amico Pippo Fava
“Una grande scuola”
Salvatore Leopoldo Gullotta, in arte Leo – attore catanese assurto a notorietà nazionale grazie alla generosità non schizzinosa del suo artigianato – sgrana il rosario dei doni ricevuti dal maestro, Giuseppe Fava detto Pippo, immigrato a Catania dalla natia Palazzolo Acreide. Ogni grano una pausa: “Dignità. Rispetto. Disciplina. Tecnica. Studio. Umiltà”. Gli anni sono ormai 67 (lui dice 68 in polemica con il giovanilismo berlusconiano) e ancora non riesce a raccontare un’impresa teatrale (stasera all’Eliseo di Roma con Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi) senza salutare Pippo. Il 5 gennaio saranno trent’anni dall’esecuzione. “Per me è un dovere continuare a dire che l’ha ucciso la mafia”.
Per questo ha accettato di lavorare gratis per “I ragazzi di Pippo Fava”, il film prodotto per Raifiction?
Quando la Cyrano New Media mi ha chiesto di partecipare al film tratto da Mentre l’orchestrina suonava gelosia, il libro di Antonio Roccuzzo, allora giornalista de I Siciliani, mi sono sentito onorato. Volevano pagarmi, ma io non mercifico l’amicizia. Avevo 14 anni quando mi affacciai al Teatro Stabile di Catania, e lui era uno degli autori, stava lì e insegnava ai giovani. Un grande giornalista, ma anche un poeta. Per me un cassetto dell’anima che ogni tanto mi piace aprire.
Lei cita sempre quella frase sulla tomba di Fava: “Se non si è d isposti a lottare a che serve essere vivi?”.
Quella frase non era nel testo di La violenza, la commedia che scrisse negli anni 60, ispirata al processo di Genco Russo. La aggiunse per il mio personaggio. Io che sono vivo continuo a parlare di lui.
E a dire che il suo giornalismo era una cosa nuova per Catania, dove certe cose non si potevano dire. Pippo disturbava allora e disturba ancora oggi. La lapide nella strada dove fu ucciso l’hanno messa gli studenti del liceo, e ci sono voluti molti anni perché venisse chiamata via Pippo Fava.
Nel film per la Rai lei fa la parte del conservatore catanese che non vuole sentir parlare di mafia e dice che Fava l’hanno ammazzato per una storia di donne.
L’emblema del reazionario, fascista dentro senza saperlo, come molti italiani. Ce n’è tanto di fascismo in giro, c’è quello della legge Bossi-Fini. Quello di un grande Paese fermo da mesi a causa di un condannato. Viviamo in un Paese ancora pieno di pregiudizi, come la Catania degli anni 80 che non capiva l’importanza di Pippo Fava.
Che cosa significa capire Pippo Fava?
Era un uomo di straordinaria apertura, generoso, che riunì intorno a I Siciliani molti giovani ai quali insegnava non solo un mestiere, ma anche dei principi, come con noi in teatro. Ma io so di essere fortunato. Ho avuto una grande scuola, da Fava, ma anche da grandi professionisti come Turi Ferro o Salvo Randone. Bastava guardare come lavoravano. Randone era un ottimo attore, normalmente. Ma c’erano delle sere che non so cosa gli prendeva e si illuminava. E tu che stavi dietro le quinte pronto a fare la tua parte restavi incantato a guardarlo.
E poi?
In tournée mi portava spesso a cena con lui, perché sapeva che noi giovani avevamo paga bassa. C’era sua moglie, Neda Naldi, che parlava senza sosta, con voce squillante e lui ascoltava in silenzio, passivo, apparentemente rassegnato fino a quando senza muovere un muscolo della faccia la colpiva con un tuono baritonale, in pesante cadenza siciliana: “Mi hai rotto i coglioni”. Che spettacolo!
C’era da divertirsi.
Pensi a me, sesto figlio di una famiglia operaia povera, che mi affaccio a questa meraviglia del teatro. Conobbi Leonardo Sciascia e non sapevo chi fosse, per cui notai solo le due dita ingialllite dalla nicotina. Poi lo lessi e notai il resto.
Ma il teatro funziona ancora?
La gente lo vuole, sa che con noi riesce a riflettere. Vedo che alla fine non si alzano subito, non pensano a dove hanno parcheggiato la macchina. Certo, hanno fatto di tutto per svilire il teatro. Ci sono quelli che alzano la bandiera rossa solo se e quando c’è una telecamera accesa. Quelli che coltivano inciuci, che ragionano per amicizie, per corti. Anche questo mi ha insegnato Fava, a non stare in gruppi e cordate.
La sua generazione così fortunata è riuscita a essere maestra a sua volta?
No. Siamo una generazione avara, con poca voglia di dare, di insegnare. Io cerco di fare la mia parte. Quando capita lavoro gratis per i corti dei giovani, so che quello è il biglietto da visita per poter fare un film, devi dare speranza, far capire che ce la possono fare. Lo sento come un dovere dell’età. Però…
Però?
I sessantottini come me, appena visti i soldi, hanno perso la testa. Altro che fantasia al potere, è una generazione che ha lasciato a piedi i suoi figli, che non ha insegnato loro la dignità. Ma che dignità può avere un figlio al quale hai insegnato solo a essere figlio di?
Una generazione di eterni giovani incapaci di essere padri?
Il berlusconismo ha stravolto la nostra cultura, si vedono i ragazzi che diventano machi e stuprano a 13 anni, e il loro modello si sa chi è. Mentre i politici promettono 14 euro in più al mese. Escano dalle loro stanze climatizzate, guardino cosa c’è in giro.
Lei che cosa vede in giro?
Famiglie in cui mancano le parole da insegnare ai figli.