giovedì, Novembre 21, 2024
-mensile-Interviste

Il mio amico Pippo Fava

“Una grande scuola”

Salvatore Leopoldo Gullotta, in arte Leo – attore catanese assurto a notorietà nazionale grazie alla generosità non schiz­zinosa del suo artigianato – sgrana il rosa­rio dei doni ricevuti dal maestro, Giusep­pe Fava detto Pippo, immigrato a Catania dalla natia Palazzolo Acreide. Ogni grano una pausa: “Dignità. Rispet­to. Disciplina. Tecnica. Studio. Umiltà”. Gli anni sono ormai 67 (lui dice 68 in polemica con il giovanilismo berlusco­niano) e ancora non riesce a raccontare un’impresa teatrale (stasera all’Eliseo di Roma con Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi) senza salutare Pippo. Il 5 gennaio saranno trent’anni dall’esecuzio­ne. “Per me è un dovere continuare a dire che l’ha ucciso la mafia”.

Per questo ha accettato di lavorare gratis per “I ragazzi di Pippo Fava”, il film prodotto per Raifiction?

Quando la Cyrano New Media mi ha chiesto di partecipare al film tratto da Mentre l’orchestrina suonava gelosia, il li­bro di Antonio Roccuzzo, allora giornalis­ta de I Siciliani, mi sono sentito onora­to. Volevano pagarmi, ma io non mercifi­co l’amicizia. Avevo 14 anni quando mi af­facciai al Teatro Stabile di Catania, e lui era uno degli autori, stava lì e inse­gnava ai giovani. Un grande giornalista, ma an­che un poeta. Per me un cassetto dell’ani­ma che ogni tanto mi piace apri­re.

Lei cita sempre quella frase sulla tomba di Fava: “Se non si è d isposti a lottare a che serve essere vivi?”.

Quella frase non era nel testo di La vio­lenza, la commedia che scrisse negli anni 60, ispirata al processo di Gen­co Russo. La aggiunse per il mio personagg­io. Io che sono vivo continuo a par­lare di lui.

E a dire che il suo giornalismo era una cosa nuova per Catania, dove certe cose non si potevano dire. Pippo di­sturbava allora e disturba ancora oggi. La lapide nella strada dove fu ucciso l’han­no messa gli studenti del liceo, e ci sono voluti molti anni perché venisse chiama­ta via Pippo Fava.

Nel film per la Rai lei fa la parte del conservatore catanese che non vuole sentir parlare di mafia e dice che Fava l’hanno ammazzato per una storia di donne.

L’emblema del reazionario, fascista dentro senza saperlo, come molti italiani. Ce n’è tanto di fascismo in giro, c’è quel­lo della legge Bossi-Fini. Quello di un grande Paese fermo da mesi a causa di un condannato. Viviamo in un Paese ancora pieno di pregiudizi, come la Cata­nia degli anni 80 che non capiva l’impor­tanza di Pippo Fava.

Che cosa significa capire Pippo Fava?

Era un uomo di straordinaria apertura, generoso, che riunì intorno a I Siciliani molti giovani ai quali insegnava non solo un mestiere, ma anche dei principi, come con noi in teatro. Ma io so di essere fortun­ato. Ho avuto una grande scuola, da Fava, ma anche da grandi professionisti come Turi Ferro o Salvo Randone. Bastav­a guardare come lavoravano. Ran­done era un ottimo attore, normalmente. Ma c’erano delle sere che non so cosa gli prendeva e si illuminava. E tu che stavi dietro le quinte pronto a fare la tua parte restavi incantato a guardarlo.

E poi?

In tournée mi portava spesso a cena con lui, perché sapeva che noi giovani aveva­mo paga bassa. C’era sua moglie, Neda Naldi, che parlava senza sosta, con voce squillante e lui ascoltava in silen­zio, pas­sivo, apparentemente rassegnato fino a quando senza muovere un muscolo della faccia la colpiva con un tuono bari­tonale, in pesante cadenza siciliana: “Mi hai rotto i coglioni”. Che spettacolo!

C’era da divertirsi.

Pensi a me, sesto figlio di una famiglia operaia povera, che mi affaccio a questa meraviglia del teatro. Conobbi Leonardo Sciascia e non sapevo chi fosse, per cui notai solo le due dita ingialllite dalla nicot­ina. Poi lo lessi e notai il resto.

Ma il teatro funziona ancora?

La gente lo vuole, sa che con noi riesce a riflettere. Vedo che alla fine non si alzan­o subito, non pensano a dove hanno parcheggiato la macchina. Certo, hanno fatto di tutto per svilire il teatro. Ci sono quelli che alzano la bandiera rossa solo se e quando c’è una telecamera accesa. Quelli che coltivano inciuci, che ragiona­no per amicizie, per corti. Anche questo mi ha insegnato Fava, a non stare in grup­pi e cordate.

La sua generazione così fortunata è riuscita a essere maestra a sua volta?

No. Siamo una generazione avara, con poca voglia di dare, di insegnare. Io cer­co di fare la mia parte. Quando capita la­voro gratis per i corti dei giovani, so che quello è il biglietto da visita per poter fare un film, devi dare speranza, far capi­re che ce la possono fare. Lo sento come un dovere dell’età. Però…

Però?

I sessantottini come me, appena visti i soldi, hanno perso la testa. Altro che fan­tasia al potere, è una generazione che ha lasciato a piedi i suoi figli, che non ha in­segnato loro la dignità. Ma che dignità può avere un figlio al quale hai insegnato solo a essere figlio di?

Una generazione di eterni giovani in­capaci di essere padri?

Il berlusconismo ha stravolto la nostra cultura, si vedono i ragazzi che diventano machi e stuprano a 13 anni, e il loro mo­dello si sa chi è. Mentre i politici promet­tono 14 euro in più al mese. Escano dalle loro stanze climatizzate, guardino cosa c’è in giro.

Lei che cosa vede in giro?

Famiglie in cui mancano le parole da insegnare ai figli.

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