“Il giocattolo dell’antimafia”
Tanti modi di fare “antimafia:” alcuni onesti, altri no. Ma anche fra gli onesti si litiga, qualche volta…
Recentemente il pittore Gaetano Porcasi ha dipinto un quadro con questo titolo, dove si raffigura un palcoscenico con una tenda aperta da una mano, al cui polso sta un vistoso cronometro: sul palco entra un cavallo bianco con due rotelle a pedali, dietro il cavallo ci sono alcuni scheletri, un libro a terra, quattro fari in alto e uno in basso a illuminare il palco e, in bella evidenza una telecamera e un microfono; sullo sfondo il pubblico. Difficile illustrare tutti i simbolismi dell’opera, anche perché Porcasi, nelle sue raffigurazioni, si serve spesso di riferimenti simbolici non sempre di facile lettura o in linea con i normali parametri di coerenza logica. E d’altronde l’irrazionalismo è stato sempre uno dei moventi che alimentano alcuni aspetti della creatività artistica.
L’antimafia
Comincerei dal titolo: personalmente non ritengo che l’antimafia sia un giocattolo, né che con essa si possa giocare.L’antimafia è una cosa seria, fatta di lotte durissime, bagnata del sangue di centinaia di uomini barbaramente uccisi per avere creduto nella possibilità di avere una Sicilia, un’Italia, un mondo migliore.
Sulla via scoscesa dell’antimafia c’è una fila di morti, come ben sa Porcasi, perché con lui abbiamo realizzato un libro che è una sorta di storia illustrata della mafia. Dietro di essi, malgrado i tentativi di diluire l’antimafia in una sorta di “brodo” comune trans-ideologico, c’è in gran parte il colore rosso, come il sangue delle vittime e come il colore delle idee nelle quali esse hanno creduto.
E pertanto con l’antimafia non si gioca, non si possono fare affari in suo nome, non si può mettere in vetrina una vittima di mafia per conseguire profitti o non si possono nutrire fini segreti per costruire carriere politiche, per sciacquarsi la bocca, per confermare equilibri sociali sedimentati nel tempo, al punto da sembrare immutabili.
L’Antimafia è lotta contro l’immobilità, contro la conservazione, contro il privilegio, contro la divisione in classi della società, contro l’iniqua distribuzione della ricchezza, contro l’illegalità strisciante, contro il mostruoso circuito del pizzo, della corruzione, della tangente, dell’estorsione, del ricatto, del clientelismo, della violenza, del mancato rispetto per la vita oltre che per la dignità alla quale ha diritto ogni uomo.
Si sostiene da qualche parte che l’antimafia sia nata con la mafia, come forma di lotta contro di essa, con forti movimenti sociali di rivolta e di ribellione contro le prepotenze, con martiri spacciati per delinquenti e delinquenti ai posti di governo.
Di fatto tutti coloro che hanno cercato di far carriera attraverso le idee di rivolta, ma anche quelli che le hanno seguito o inseguito con la nobile bandiera dell’illusione, sono stati quasi sempre fagocitati dalla violenza del potere.
Quando Falcone e Borsellino mostrarono che si poteva fare antimafia facendo bene il proprio lavoro di magistrati, ma a condizione che anche altri settori della società si dessero qualche elementare regola d’onestà, di colpo spuntò una serie di persone, sino ad allora sommerse, che cominciarono a fare “professione d’antimafia”.
Sciascia fu il primo a sollevare la questione e a rilevare che per alcuni l’Antimafia era lo strumento e la via più facile per far carriera. (Corriere della Sera 10 gennaio 1987). “In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante” (Intervista al Tg2).
I “professionisti”
Tra costoro secondo lui c’era Leoluca Orlando, ma anche Paolo Borsellino. Si ricordi che a quella data Sergio Mattarella, oggi presidente della Repubblica, era commissario della Dc in Sicilia e lo fu sino al 1988, quindi, anche lui con Orlando, è da considerare uno degli artefici di quella “primavera siciliana” che sembrò davvero far credere che il mondo potesse cambiare di colpo.
Sciascia, per dirla in siciliano, la “scasciò”, cioè individuò come bersaglio da affondare alcuni settori dell’antimafia senza preoccuparsi di distinguere quanto, tra di essa era dovuta a una normale affermazione delle proprie qualità e dei risultati del proprio lavoro, come nel caso di Borsellino, quanto potesse essere frutto di una autentica volontà politica di rinnovamento, come nel caso di Orlando, e quanto solo ricerca di visibilità o strumento per far carriera.
Borsellino non replicò e continuò a professare la sua ammirazione per Sciascia come scrittore, ma l’amarezza che provò sarà stata certamente profonda se, un mese dopo la morte di Falcone, il 26 giugno 1992, ebbe a dire: “Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l’anno prima: quando Sciascia sul Corriere bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia”
La caccia
Da allora è diventato di moda andare alla caccia di professionisti dell’antimafia, affibbiare questa etichetta a chiunque professi l’antimafia, a chi mette a rischio la propria persona, pur di operare per creare una svolta, per tracciare solchi ben definiti tra l’onestà e il malaffare.
E’ la vendetta mafiosa, l’arma di resistenza e di offesa con cui la mafia tenta di demolire chi può rappresentare per lei un ostacolo, un pericolo, un potenziale o reale nemico, specie quando tenta di convincere gli altri, creando aggregazioni politiche, usando mezzi di diffusione delle idee, facendo ricorso, se ne ha il potere, alla repressione, attraverso l’operato delle forze dell’ordine e della magistratura, oppure realizzando progetti di educazione alla legalità, soluzioni artistiche, leggi e quant’altro serva a costruire alternative non violente o forme d’economia non fondate sullo sfruttamento.
A volere avventurarsi in una ipotesi psicanalitica, si potrebbe pensare che la “mafiosità” introiettata attraverso la trasmissione ereditaria di modelli di comportamento, idee, luoghi comuni, modi di pensare, di giudicare, di condannare, si esplicita anche attraverso queste forme di condanna, all’apparenza giustificate, ma comunque determinate e manifestate dall’originario e incancellabile “sentire mafioso”. Ma questa è una cattiveria nella quale non è opportuno avventurarsi, altrimenti dovremmo spianare la strada a quelli che affermano che “siamo tutti mafiosi” o che, come dice Alfio Caruso, “i siciliani non possono non dirsi mafiosi”.
La guerra
E andiamo ai termini del contendere: a Partinico si è scatenata una guerra senza esclusione di colpi tra il “pittore antimafia” Gaetano Porcasi, che, da qualche anno ha rinunciato a questa autodefinizione e si è ridefinito “pittore d’impegno sociale”, e Pino Maniaci, portavoce di Telejato, autodefinitasi anch’essa “TV antimafia” . Due modi di fare antimafia su binari diversi, uno attraverso l’arte, l’altro attraverso il giornalismo e l’informazione mediatica. Entrambi da tempo conducono anche una battaglia contro alcuni aspetti del mondo dell’Antimafia, parlando di “mafia dell’Antimafia”. Porcasi sostiene che le associazioni antimafia, a partire da Libera e Addio Pizzo, vanno al di là dei loro obiettivi di emancipazione sociale, realizzando redditizie attività commerciali o usando i vari canali del potere per ottenere contributi spesso spesi senza conseguimento di risultati.
Maniaci sostiene che è l’Antimafia professata da alcuni settori della magistratura, soprattutto nell’applicazione delle misure di prevenzione, ad avere creato una sorta di circuito perverso dove lucrano figure poco oneste e incapaci di amministrare i beni confiscati e magistrati spessocomplici di queste situazioni. Accomuna entrambi l’accusa che si fanno reciprocamente di utilizzare l’etichetta dell’antimafia, il primo per vendere quadri, il secondo per fare audience.
Fino a poco tempo fa Porcasi ha realizzato diverse tele su Maniaci e sul lavoro di Telejato, che sinora hanno fatto bella mostra presso gli studi della piccola emittente. A inasprire gli animi è stata la barbara esecuzione dei due cani di Pino Maniaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per vendicarsi ed estrinsecare la loro ostilità hanno messo in giro la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pubblicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldicenze, secondo tutti i canoni praticati dalle società mafiose: isolare le persone scomode, togliere loro credibilità, additarle al pubblico ludibrio e, in ultima soluzione, eliminarle.
Porcasi sembra avere prestato il fianco a queste maldicenze, attraverso alcune dichiarazioni avventate e qualche insinuazione comparsa sul suo profilo facebook. Lui sostiene di avere solo parlato di “maschere pirandelliane”. Una volta in possesso di inoppugnabili prove, Maniaci si è scatenato, replicando alle maldicenze e accusando un giornalista locale e Porcasi di vergognose insinuazioni, degne dei peggiori mafiosi.
Successivamente è comparso un articolo del solito giornalista (che una volta lavorava a Telejato) sul Giornale di Sicilia: in esso si sostiene che la telecamera e i microfoni raffigurati nel quadro sono un chiaro riferimento a chi, attraverso l’antimafia cerca di ridare una verginità al suo discusso passato, cioè a Maniaci. Immediata la risposta di Maniaci che, già scottato, ha accusato il giornalista di svendere la sua dignità per i pochi soldi con cui gli viene pagato un articolo e Porcasi di essere un imbrattatele, di non sapere esprimersi in taliano, di avere svenduto la sua nomea di “pittore antimafia”, di usare la pittura antimafia per vendere i suoi quadri.
Il quadro
Ma torniamo per qualche minuto al quadro: mi pare indovinata la metafora del cavallo di Troia, ridotto a giocattolo, di cui alcuni si servono per penetrare nella cittadella della legalità, cioè nel circuito delle istituzioni.
Si potrebbe pensare ai tanti commercianti, anche a esponenti della Confindustria siciliana, che professano l’antimafia e si iscrivono a Libero Futuro o ad Addio Pizzo, pur non avendo del tutto rescisso i legami con il circuito mafioso che costituisce il brodo di cultura dei loro affari.
Ma si può pensare a politici che fanno professione d’antimafia. Gli scheletri alle spalle sono il chiaro retaggio di complicità che si cerca di occultare.
Si potrebbe anche pensare che il palcoscenico dell’antimafia, servendosi del servizio complice delle telecamere e dei giornalisti asserviti al potere, tenta di dare una immagine positiva di sé e del suo operato. Forse questa sarebbe la maschera pirandelliana. Volendo si potrebbe anche dire, dalla presenza del libro, che anche gli intellettuali spesso si associano a questa antimafia da facciata. Sul cronometro non saprei che dire: forse che il tempo passa ma tutto resta uguale.
Per contro l’articolo in questione finisce col distruggere il significato generale del quadro, e lo legge come un momento di ripicca di una vicenda personale. Porcasi, non ha comunque sinora smentito l’interpretazione del giornalista né le maldicenze attribuitegli su Maniaci canicida.
Il vero nemico dell’antimafia
E siamo alle solite: il vero nemico dell’Antimafia non è da ricercare all’esterno, nel mafioso, ma all’interno, nella pretesa di essere depositari della verità e considerare nemici gli amici che, per qualche ragione, dissentono.