Il genere ECM
1969, secoli fa…
In Italia c’erano appena stati il ’68, Louis Armstrong a Sanremo e qualche bomba a piazza Fontana, in America Miles Davis pubblicava Bitches Brew, a Bethel si svolgeva il festival di Woodstock, e mentre in Vietnam si uccideva, un altro Armstrong, Neil, metteva il primo piede umano sulla luna.
In Italia c’erano appena stati il ’68, Louis Armstrong a Sanremo e qualche bomba a piazza Fontana, in America Miles Davis pubblicava Bitches Brew, a Bethel si svolgeva il festival di Woodstock, e mentre in Vietnam si uccideva, un altro Armstrong, Neil, metteva il primo piede umano sulla luna.
Tante altre cose naturalmente, ma tra queste, in Germania, a Monaco di Baviera, un certo Manfred Eicher, fondava la Edition of Contemporary Music, un’etichetta discografica conosciuta in seguito con l’acronimo ECM.
Fatti di portata diversa certo, ma nessuno secondario, perché guidata dal lucidissimo pensiero di Eicher, la ECM nasceva per diventare una delle più importanti società di produzione musicale del nostro tempo.
Certamente la più esclusiva e singolare, sin dall’inizio, e in ogni suo carattere, dalla qualità delle incisioni alla sobria e distintiva eleganza della grafica, ma soprattutto, ed è in ciò che consiste l’unicità, la sola forse ad essere riuscita a raggiungere il successo commerciale, senza per questo aver dovuto mai mediare sulla qualità delle opere musicali proposte.
E’ stato questo il capolavoro di Manfred Eicher, il resto sono meriti, preziosità come The Köln Concert di Keith Jarrett, Officium di Jan Garbarek e l’Hilliard Ensemble, The Sea di Kethil Bjornstad, Chaser, di Terje Rypdal, per citarne solo alcuni tra i più e meno noti degli oltre mille titoli pubblicati in quaranta’anni dall’etichetta bavarese.
Volendo banalizzare verrebbe da dire “la qualità paga”, ma poi bisognerebbe continuare con roba tipo l’amore è una cosa meravigliosa, tanto va la gatta al lardo e cose di questo genere.
In realtà, soprattutto di questi tempi, nessuno investe più sulla qualità, non perché non ce ne sia domanda, ma perché intanto bisogna saperla riconoscere, e poi perché comunque sia quella del “poco impegnativo” è sconfinatamente superiore.
Ma non è finta. Nel 1984 Eicher ha fatto una cosa ancora più sorprendente, apparentemente fuori da ogni logica commerciale: ha creato la linea New Series, e l’ha dedicata alla produzione di musica classica contemporanea. Se quella iniziale, stando alle finalità, si presentava come una impresa, questa della New Series più che disperata sembrava folle, perché voleva dire intervenire con il prodotto più ostico e difficile da vendere, in un settore, quello della classica, da tempo commercialmente in costante contrazione.
Per inaugurare la serie fu scelto il magnifico Tabula Rasa del compositore estone Arvo Pärt, che non era uno sconosciuto, ma neppure a quel tempo ancora celebre, né tanto per cambiare musicista di facile fruizione.
Nessuno insomma ci avrebbe scommesso una lira, e invece ancora una volta è stata la visionarietà di Eicher ad averla vinta, e la New Series non solo è sopravvissuta, ma è cresciuta, e spaziando dal barocco al contemporaneo, da Dowland a Giya Kancheli, György Kurtág, Meredith Monk, è forse al momento la realtà più viva e stimolante dell’intero panorama produttivo di musica colta.
Tra le tante perle di questa collana è impossibile non ricordare oltre al già citato Tabula Rasa, sempre di Part la recente Sinfonia n.4, e il meraviglioso Little Imber del georgiano Giya Kancheli, per non dire delle ben tre magnifiche interpretazioni degli Inni Sacri di Gurdjeff, affidati a Keith Jarrett, al duo formato dal pianista Vassilis Tsabropoulos e la violista Anja Lechner e al Gurdjieff Folk Instruments Ensemble.
Unico comune denominatore di tutto ciò è sempre stato e continua ad essere il superamento della concezione di genere musicale, il famoso abbattimento degli steccati, ma ricercato con tale convinzione e personalità, da avere dato vita, paradossalmente quasi a un nuovo genere, il genere ECM.