giovedì, Novembre 21, 2024
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Il denaro di Messina Denaro

Al suo esordio viene indicato come “u picciriddu”, erede del patriarca della mafia belicina don Ciccio Messina Denaro, oggi Matteo Messina Denaro viene chiamato “Diabolik”. Più che un capo carismatico, è un oggetto di venerazione.

Blasone mafioso riverito, il padrino di Castelvetrano porta dentro di sè la ferocia dei corleonesi e un fiuto politico spiccato: è il vero erede di una tradizione. Quella per cui Cosa nostra è antistato, ma anche potere reale, tessitore di legami tra famiglie, mandamenti e province, è lui il profeta della mafia del terzo millennio: valori arcaici dissimulati e affari spregiudicati fatti nel silenzio. E rapporti stretti con ‘ndrangheta e camorra.

Messina Denaro è il cardine di interessi criminali e politici, di trame inconfessabili. Il custode dei segreti di una terra che è culla di logge massoniche deviate e disegni eversivi. La terra in cui, secondo molti, Cosa nostra è nata. E dove, più che altrove, è diventata cultura di un pezzo importante della borghesia e dei gruppi di potere.

Adesso a dirci che la mafia ha bene piantato le radici dentro politica e istituzione è anche la specialistica classifica dell‘«Eurispes»: Trapani “inquinata” dalla mafia con tanto di certificazione.

Nell’ambito del Rapporto Italia 2011, l’Eurispes ha realizzato un’analisi nella quale si evidenzia il grado di fragilità e di permeabilità dei territori rispetto ai tentacoli della ‘ndrangheta, della camorra, della mafia e della sacra corona unita: Trapani si colloca nei primi dieci posti, col 35,6 per cento di permeabilità.

Ma l’ultimo dei sindaci eletti nel capoluogo, il generale dei carabinieri Vito Damiano, che non dovrebbe essere proprio uno sprovveduto, al suo esordio è venuto a dire che di mafia a scuola non bisogna parlarne, mentre il suo predecessore, l’avvocato Girolamo Fazio era tra quelli che dell’antimafia preferiva sparlare.

L’ultimo degli “affari” trovato tra le mani di Matteo Messina Denaro porta fin dentro la rocca di San Marino e a un titolo bancario da 870 milioni di dollari. Era quanto valeva nel 1961, quando una banca svizzera lo emise in favore di un monsignore, ora deceduto, per disposizione dell’allora dittatore indonesiano Kusno Sosrodihardj, detto “Sukarno”.

Oggi, con l’aggiornamento del valore della moneta statunitense, quel titolo varrebbe 39 miliardi di dollari, ben 45 volte di più rispetto a 50 anni addietro. Un titolo di credito finito in mani sicure nella cassaforte della Dda di Reggio Calabria, sequestrato dalla Guardia di Finanza nel 2009 a due boss della ‘ndrangheta nel corso di una operazione antidroga.

La Procura antimafia di Reggio Calabria per quel titolo di credito ha fatto arrestare 20 persone, fra cui un consulente finanziario ed un giovane avvocato di Modena. Quando nel 2009 quel certificato finanziario fu sequestrato era lì per lì per essere trasformato in moneta sonante, denaro liquido, al Banco di Sicilia dove erano andati gli emissari del latitante Matteo Messina Denaro dopo che l’operazione di scambio non era riuscita presso lo Ior del Vaticano.

Se questa operazione finanziaria è stata bloccata, si ha la sensazione che altre siano andate a buon fine. Ed è su questi maxiriciclaggi che le mafie in Italia hanno rinnovato patti di alleanza: la crisi di liquidità provocata dallo “spread” non riguarda le organizzazioni mafiose, le mafie sono sbarcate nel mondo della grande economia.

Ma per i nostri politici le emergenze sono le intercettazioni e il bavaglio alla stampa, non si alza la guardia contro i trasferimenti di capitali, i movimenti di denaro, il riciclaggio. E il superboss Matteo Messina Denaro sentitamente ringrazia anche a nome dei capi delle altre mafie. Benedice tutti, lui che è “il papa della nuova mafia”.

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