Il compagno cronista Un mestiere così
Nella Sicilia degli anni Settanta, fra mafia e strategie della tensione
Sei pallottole e Giovanni Spampinato muore. Ragusa, la notte del 27 ottobre 1972, perde un giovane giornalista, fatto fuori perché faceva bene il suo lavoro, che, secondo alcuni, coincide col ficcare il naso in faccende poco chiare. Troppo scomodo in questo caso, soprattutto dopo che aveva documentato l’alleanza fra gruppi neofascisti e criminalità organizzata. Era corrispondente de L’Ora e dell’Unità ai tempi della “strategia della tensione”.
Sono trascorsi quarant’anni da quella notte e i Ragusani non sembrano ricordare molto la figura di Giovanni Spampinato.
Che il giornalismo d’inchiesta, quello che narra il marcio, quello che denuncia la corruzione e inchioda i criminali, sia pericoloso è risaputo. Non si rischia solo di essere ammazzati. Ma anche di essere dimenticati, che poi è come morire. Li chiamano i rischi del mestiere.
«Questo atteggiamento di fiducia nel proprio mestiere, di giornalista che tiene gli occhi bene aperti, credo sia il primo insegnamento che possono trarre dalla sua breve esperienza di vita i giovani di oggi»: questa è l’eredità di Spampinato secondo Carlo Ruta, giornalista d’inchiesta, autore di “Morte a Ragusa” (2004), che fa luce sulla storia del cronista.
Lo stesso Ruta è stato al centro di una vicenda che l’ha visto coinvolto, suo malgrado, con l’accusa di stampa clandestina. Per questo è stato condannato nel 2008, ma assolto dalla Corte suprema di Cassazione nel 2012, in quanto la presunta “clandestinità” di cui era stato accusato non può essere estesa ad un blog su internet. Da ricordare anche l’episodio in cui, una notte, gli viene rubata la macchina con dentro le copie di “Morte a Ragusa”, che il giorno dopo sarebbero state distribuite.
«Negli ultimi anni Novanta, quando ho cominciato a occuparmi del caso, si trattava di una storia dimenticata, rimossa, tenuta in vita solo dal ricordo che custodivano dei fatti alcuni amici e compagni del giovane ucciso. Lungo quei sentieri mi sono trovato quindi a “incontrarlo” e a confrontarmi con la sua esperienza, con il suo punto di vista».
L’esempio di Carlo Ruta è utile per analizzare altre sotie simili, dove un tipo di narrazione scomoda (tipicamente, l’inchiesta, trova ostacoli che rendono tortuoso il cammino verso la cosiddetta realtà dei fatti.
«L’anno scorso abbiamo documentato il degrado in cui versava una parte dell’ospedale di Modica: quadri elettrici con l’acqua sotto, tubi rotti, rifiuti di ogni sorta. Abbiamo pubblicato un video e un articolo. La risposta non è stata “Provvediamo subito” ma “Vi quereliamo per procurato allarme e violazione di domicilio”. Ovviamente non c’era nessun cartello che vietava l’accesso. Comunque alla fine, anche dopo le proteste di molti, la querela non è stata presentata. Non aveva senso. La cosa bella di questa storia è che quei settori che abbiamo visitato sono stati puliti subito dopo. Quindi avevamo ragione», dice Giorgio Ruta de Il Clandestino, mensile cartaceo di Modica nato nel 2006.
«E’ vero che oggi per minacciare un giornalista si usa di più l’arma della querela che quella dell’aggressione fisica. A volte esistono querele che hanno soltanto lo scopo di intimidire, niente di più», continua Giorgio Ruta.
Una querela è stata invece recentemente archiviata, quella della Busso Sebastiano S.r.l. nei confronti di Claudio Conti (Legambiente), Giulio Pitroso e il direttore della testata La Verità. A questo proposito Giulio Pitroso: «La reazione dei miei conoscenti alla querela è stata più vicina a un coro di ‘telavevodetto’, rispetto a un minimo accenno di vicinanza, termometro del fatto che la mentalità comune – senza voler troppo generalizzare – di Ragusa vive ancora in un senso di forzato perbenismo, per cui non ci si deve mai esporre apertamente».
Forse siamo difronte ad un cambio di tendenza, poiché in passato si era solito ferire fisicamente gli “impiccioni”, mentre in questo presente sembra ferir di più la notifica del tribunale. Senza dimenticare gli espliciti atti intimidatori come quello subito dal giornalista modicano Saro Cannizzaro, collaboratore del Giornale di Sicilia, al quale fu bruciato il portone di casa nel settembre del 2011 oppure l’episodio che ha visto coinvolta Pinella Drago, giornalista sciclitana anche lei collaboratrice del Giornale di Sicilia, cui ignoti hanno incollato con della colla attack il lucchetto della cappella in cui riposa il defunto marito.
In provincia c’è pure ScicliPress, cartaceo mensile, nato nel 2008. Ne parlano Bartolo Lorefice e Paolo Cirica: «Giovanni Spampinato vive e cammina con le gambe dei giovani iblei impegnati nel mondo del giornalismo (tesserati e non) e che, da free lance, danno dignità e lustro ad una categoria che, dalle nostre parti, ha proprio bisogno di nuova linfa. Penso al nostro ScicliPress, ma anche agli amici de Il Clandestino, di Generazione Zero e ai singoli disseminati in giro per la provincia: Roberto Sammito a Scicli, Andrea Sessa e Andrea Gentile a Vittoria.
Crediamo che Spampinato sarebbe orgoglioso del nostro impegno per una informazione con la schiena dritta».
Il mosaico del giornalismo ibleo nel 2011 si è arricchito di un altro tassello, Generazione Zero, quotidiano online impegnato nella realizzazione d’inchieste legate all’ambiente e alle precarie condizioni dei siti archeologici, con un occhio di riguardo verso i giovani, gli immigrati, i precari.
Al giornalismo ragusano di nuova generazione dobbiamo accostare la tradizione incarnata da Sicilia Libertaria, il mensile anarchico, giunto al suo trentaquattresimo anno di vita, diretto da Pippo Gurrieri. Un esempio di giornalismo militante che ha fatto e continua a far parlare di sé anche oltre lo stretto di Messina.
L’eredità e il ricordo di Giovanni Spampinato vivono nel lavoro dei giovani giornalisti ragusani che scrivono fino a consumarsi le dita, denunciando la corruzione e l’indecenza di certi ambienti dall’aria malsana. Eppure, tra la gente, lo si conosce poco Giovanni Spampinato. Qui ne ne parlano poco e, magari, male. Perché “l”hanno ammazzato per un fatto di antipatia”, perché “era un giornalista azzardato”, perché “le chiacchiere non costano un centesimo”. Intanto nel 2007 il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha insignito Spampinato del premio Saint Vincent per il giornalismo alla memoria. Alla memoria, appunto.
D’altro canto, Ragusa era stata una capitale del manganello nero, ai tempi dell’ascesa del duce, vuoi la mancanza di latifondo, vuoi lo scarso radicamento mafioso. Era come il nord. Di questo si è sempre vantata la gente di qui, di essere diversa dagli altri isolani. Isola nell’isola.
Poiché non è auspicabile cominciare il percorso su rotaia dagli Iblei e volendo noi viaggiare a bassi costi, la nostra prima tappa fu la stazione ferroviaria di Catania. Negli anni della strategia della tensione, Ragusa arrivò ad esportare ed importare neofascisti, in un triangolo speciale con Siracusa e Catania. Quest’ultima oggi si raggiunge dal capoluogo ibleo in circa due ore, a fronte di un centinaio di chilometri: le migliorie al percorso sono state segnate da una lotta politica tra Vito Bonsignore, cugino di Firrarello (Pdl), e Raffaele Lombardo.
La stazione di Catania ci si palesò come una cartolina dall’Inferno: dei signori arroganti dicevano agli autisti dove mettere la macchina, una vecchia orinava disinvolta quasi in mezzo alla gente e ovunque regnava una disperata calma apparente, interrotta dagli annunci di una voce-robot. L’attesa fu immensa. Terminò, quando cominciò il buon senso. «Ma sei sicuro che partiva alle sette?» chiesi io.
Non abbiamo mai avuto talento per i dettagli, anche per quelli essenziali. Il nostro treno era già passato qualche ora prima, come diceva la scritta tatuata sui biglietti, che Piero teneva in borsa.
La cosa ci costò qualche decina di euro e qualche ora. Partimmo di sera. Le discussioni inquiete, cui non si poteva trovare una fine, mentre il treno ci cullava con il suo verso cadenzato, il senso d’angoscia di una gioventù che si sa già senza futuro ci prepararono a un sonno profondo, che consumammo sulle brutte poltrone di uno scompartimento vuoto.
Al mattino, ci svegliarono due poliziotti con un cane. Il nostro aspetto non ci aiutava. «Dove siete diretti?». Manifestazione nazionale antimafia. «No Mafia Day?».
Non sapevamo che fosse e loro sapevano della nostra. Imbarazzante silenzio. Avevano un accento che profumava di soppressata. Eravamo da qualche parte in Calabria; l’aria del mattino era splendida. «Arrivederci».
Molti Siciliani pensano che la Calabria sia una terra di disperazione e miseria. Sembra il colmo. La peggiore maledizione dei Siciliani è, infatti, quella di credersi i migliori al mondo. Per questo ci interroghiamo spesso del perché qualcuno non valorizzi veramente la nostra terra. Quando qualcuno arriva dal mare, sia egli di Washington o di Roma, e impone il suo sfruttamento, noi pensiamo che sia il nostro salvatore, mentre lui s’impone anche su chi vive una storia altrui, come la chiamava Carlo Levi.
E chi solleva dei dubbi? Si pensi al giornalista che sospettò dei legami tra un imprenditore greco, un certo Mephalopoulos, venuto a spendere grana a Siracusa, e il regime dei Colonnelli: finì ammazzato e la sua città si distrasse dalla sua scomoda memoria.
Nella città imperiale di Roma, cambiammo treno. Da lì fu tutto svelto. Le mie speranze di arrivare in tempo, si fecero, però, tenui. La piana, un po’ imbronciata, ci scorreva accanto, attraverso i finestroni. Cielo grigio.
Nonostante la fama dei treni nordici, non recuperammo. Fummo a Milano che tutto era già finito. Non ci restò, allora, che dirigerci verso il coordinamento UdS. A Rogheredo, in stazione, aspettavamo un treno, quando ci accorgemmo che, intorno a noi, altri ragazzi aspettavano il mezzo con la stessa aria da naufraghi.
C’erano un diciassettenne genovese biondo, una ragazzina vestita da scout, accompagnata da un fidanzato alto e barbuto. Non fu difficile riconoscersi e parlarsi. Difficile fu, invece, mandar giù il boccone amaro delle cose che dicevano i compagni: come se un impero crollasse in mano ai barbari. A Padova un adolescente con il naso rotto dai nazisti, a Genova la scomparsa progressiva del sindacato, a Ragusa la cronica difficoltà di ricambio con nuove leve e, su tutto, l’aria di divisione e conflitto tra gruppi di tutta la penisola.
Arrivati a destinazione, in un paesino della Pianura Padana, trovammo ragazzi da tutta Italia che stavano già discutendo, divisi in gruppi di lavoro. Molti erano i generali, i capi e vicecapi di questo esercito, che si rivelava, in realtà, friabile. C’era chi contestava la Cgil, chi temeva gli autonomi; tutti volevano “incidere su determinate tematiche che stanno a monte”.
Fumanti sigarette a margine delle riunioni, mentre qualcuno rischiava di innamorarsi. Esclusi i capi, nessuno superava i vent’anni. In serata fu allestita una mensa dagli scout locali, che, con cortesia e disciplina, ci servirono della buona pasta rimestata in un pentolone.
«Vegetariano?» chiese la ragazzetta con il mestolo in mano. No, grazie. Qua e là, i meridionali imbastivano cori e altre goliardate. Mentre affondavo la forchetta, entrò uno scout con un’icona dall’aspetto familiare, in bianco e nero.
Era la foto di Giovanni Spampinato, un giornalista di Ragusa, ucciso tanti anni fa per aver fatto bene il suo lavoro. «Era di Ragusa» dissi al ragazzo, che, dopo avermi spiegato di come il suo gruppo lo aveva “adottato” per la manifestazione, accolse con nordico e partecipe distacco il mio goffo orgoglio.
Nel tempo lontano – ma non troppo -, in cui Ragusa viveva una quotidiana violenza politica, connessa al crimine, Giovanni Spampinato era un ragazzo di 26 anni, uno studente, un giornalista, di Sinistra. Le avrebbe capito bene, le nostre angosce. All’amica Angela Fais scriveva così:
“Come vedi va tutto bene. Con Giacomo si lavora alla perfezione, certo resta sempre il problema economico, il lavoro mi assorbe molto e rende poco. Ieri Nino G. mi ha accennato alla possibilità di una mia utilizzazione a Catania, sempre come collaboratore. Dovremmo parlarne con più precisione. Certo che, in un modo o nell’altro, debbo trovare una sistemazione che mi consenta un minimo di indipendenza economica. E questo, stando a Ragusa, non credo sia possibile. Tra l’altro, ho la ragazza che studia a Roma, e il fatto di vederci solo nelle feste crea problemi. Comunque, non so proprio cosa farò”.
* * *
E noi che oggi non ci troviamo in condizioni diverse, ci permettiamo di pensare che è come se avessero fatto violenza pure a noi.
Giovanni Spampinato
Città: Ragusa
Mestiere: Studente di Filosofia/Giornalista per l’Unità, L’Ora, Dialogo
Specialità: strategia della tensione, rapporti tra criminalità e neofascismo, archeomafie
Assassinio: operato da Roberto Campria, sulla base di una presunta persecuzione nei suoi confronti da parte del cronista. Figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa, Campria sarà condannato a 21 in primo grado, a 14 in appello, ma ne sconterà solo 8. Campria era stato sospettato dal giornalista dell’omicidio dell’ingegnere Tumino, come lui vicino all’estrema destra e coinvolto nell’antiquariato.
Riconoscimenti: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha consegnato alla memoria il Premio Saint-Vincent nel 2007.
La quinta edizione del “Master in giornalismo investigativo e analisi delle fonti documentarie” di Milano, promosso dall’Associazione Giornalismo Investigativo, è stato intitolato alla memoria del giornalista siciliano Giovanni Spampinato nel 2011.
La sala stampa della Provincia di Ragusa è stata intitolata a Giovanni Spampinato. Sul suo utilizzo si è aperta una ragionevole polemica, che ha visto addirittura documentare la scomparsa della targa commemorativa della sala stessa.
Sospetti: non sono mai state aperte indagini sulla responsabilità di eventuali mandanti, ma è chiaro che diverse ipotesi, ben documentate nell’opera dello storico Carlo Ruta spingerebbero verso una rianalisi del caso. Nel n.9 de “La Verità”, giornale d’inchiesta diretto da Gianni Bonina, (che sul caso ha scritto un libro, recentemente rielaborato in “Il fiele e le furie”), lo stesso parla delle possibilità di riapertura del caso che sarebbero state costruite negli anni Zero; nel numero 10, l’allora Procuratore Fera replica ad alcuni passaggi dell’articolo. L’opera di Luciano Mirone ne “Gli Insabbiati” e “C’erano dei cani, ma molto seri” di Alberto Spampinato fanno molto riflettere sul caso. A distanza di quarant’anni si potrebbe cominciare a parlare di mandanti e di reti occulte, che avrebbero avuto l’interesse di eliminare questo giovane cronista.