Il business dei rifiuti: Laboratorio Catania
Sicilia seconda per illegalità ambientale
Ciclo del cemento, agromafie, spazzatura, incendi e delitti contro la fauna. Sono il cuore del business della criminalità organizzata. Reati fotografati dal dossier Ecomafia 2013 di Legambiente, in cui l’isola scalza la Calabria dal secondo posto per numero di infrazioni accertate.
Il settore più redditizio resta quello dei rifiuti, dove Cosa Nostra ha trovato nuove e più sofisticate modalità di infilitrazione, sperimentate per la prima volta nel Catanese. Ma tutta la Sicilia è coinvolta: da Bellolampo a Palermo e San Filippo del Mela con l’amianto, ai cantieri navali di Messina
Aumenta il business, che tocca 16,7 miliardi di euro, cresce il numero dei clan coinvolti (sei in più) e quello dei Comuni sciolti per mafia, emergono nuove e raffinate modalità criminali. Le ecomafie non conoscono recessione, soprattutto nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. E’ impietosa la fotografia scattata da Legambiente nel rapporto Ecomafia 2013, Storie e numeri della criminalità ambientale. L’isola guadagna una posizione nella classifica nazionale, scavalcando la Calabria e salendo dal terzo al secondo posto. L’11,8 per cento delle infrazioni ambientali accertate in Italia sono state registrate in Sicilia (poco più di 34mila), che conquista il non invidiabile primato nei delitti contro la fauna e si piazza nei primi quattro posti a livello nazionale nelle classifiche sull’illegalità nel ciclo del cemento, per incendi dolosi e colposi e nel settore dei rifiuti. Proprio quest’ultimo rimane il core business delle organizzazioni criminali: da qui deriva il 15 per cento della ricchezza delle ecomafie ed è terreno per nuove sperimentazioni che vedono coinvolta, come laboratorio privilegiato, proprio la provincia di Catania.
Cosa Nostra ha trovato l’ultima frontiera della Rifiuti spa: la falsificazione di documenti per far figurare operazioni di raccolta differenziata in realtà mai avvenute, a cui si aggiunge il finto riciclo, tentativi di dare un volto pulito a veri e propri smaltimenti illegali di rifiuti, anche quelli speciali e altamente pericolosi.
«Ancora una volta – sottolinea la relazione – com’è accaduto per le energie rinnovabili, si cerca di cannibalizzare un nuovo e promettente segmento economico, per accumulare profitti illeciti, o evitare penali nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi».
Nel corso del 2012 la magistratura ha fatto luce per la prima volta su due sistemi di questo tipo, entrambi nel Catanese: a Caltagirone e nei centri gestiti dall’Ato Kalat ambiente e nei comuni ionici con l’operazione Nuova Ionia.
Erano false le invidiabili percentuali di raccolta differenziata raggiunte dai paesi del Calatino. Nel maggio scorso un’indagine della Procura etnea ha colpito amministratori e tecnici della Kalat ambiente, la società che si occupava della gestione integrata dei rifiuti, e i responsabili locali delle due ditte che espletavano il servizio: la Aimeri ambiente (al centro anche delle cronache dell’area ionica) e la Agesp Spa.
L’accusa è di aver frodato i Comuni attestando percentuali di differenziata, anche del 70 per cento, in realtà inesistenti. Il laboratorio della truffa sarebbe stato il centro di compostaggio e di trattamento della frazione secca di Grammichele. Qui venivano portati rifiuti di ogni tipo, mischiati per cambiarne la natura e rivenduti agli agricoltori come compost di qualità, creando un danno all’ambiente e ai cittadini. E sempre Caltagirone è stata la sede della truffa legata al pastazzo di agrumi, che può essere utilizzato come sottoprodotto nel settore agricolo e zootecnico, ma solo a certe condizioni che non si sarebbero verificate.
A Giarre e nei comuni ionici il sistema era ancora più articolato e coinvolgeva funzionari pubblici, assessori e sindaci, come svelato dall’indagine Nuova Ionia, durata quattro anni e conclusa con arresti e sequestri milionari.
«Sembrano lontani anni luce i tempi in cui era lo stesso Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base di cellulosica) a premiare l’amministrazione comunale di Giarre per la straordinaria performance ottenuta in tema di raccolta differenziata», ricorda Legambiente.
«Erano risultati che lanciavano la cittadina etnea a pieno titolo nell’esclusivo club dei comuni italiani virtuosi nella raccolta differenziata di carta e cartone. A distanza di quattro anni, però, il sogno sembra sfumare».
A dirigere le attività di Cosa Nostra nella gestione del ciclo dei rifiuti sarebbe stato Roberto Russo, esponente spicco e parte del direttorio del potente clan locale dei Cintorino di Calatabiano.
E’ anche intercettando le sue telefonate con funzionari e amministratori che gli investigatori scoprono, anche qui, la truffa della differenziata: formulari della raccolta e del conferimento con numeri inesistenti per mostrare un’efficienza non corrispondente alla realtà e, allo stesso tempo, costringere i Comuni a ricorrere alle procedure di somma urgenza per rimuovere microdiscariche e pulizie straordinarie, affidando l’incarico e ditte riconducibili allo stesso clan, nonostante i servizi fossero regolarmente appaltati e pagati all’Aimeri.
Così Russo si rivolgeva all’ex assessore all’Ecologia di Giarre, Piero Mangano, accusato di corruzione aggravata, a proposito della gestione dell’umido: «Ora devi dire grazie a me, ah! Te ne ho caricato di formulari di altri paesi».
La falsificazione portava notevoli profitti al clan e all’Aimeri, che, sottolineano gli investigatori, «ha evitato di pagare le penali derivanti dal mancato raggiungimento della raccolta differenziata».
«Mi raccomando – diceva un esponente del clan Cintorino al responsabile locale della ditta – Roberto questa cosa la deve curare bene, ah! Dobbiamo essere più sperti di loro… Li dobbiamo fottere alla grande! È facile arrivare; certo, se ne va un po’ di tempo, però pazienza… Lo dobbiamo sapere io e lei e basta!».
E se il Catanese è stato il laboratorio per le nuove modalità criminali, nelle altre province siciliane si registrano irregolarità tradizionali, ma non meno gravi, del ciclo dei rifiuti.
Il Tribunale di Palermo ha dichiarato fallita l’Amia, la società municipalizzata che gestisce il servizio nel capoluogo e che negli ultimi dieci anni avrebbe accumulato un debito di 180milioni di euro. Mentre la Procura a febbraio del 2013 ha sequestrato la discarica di Bellolampo per l’ipotesi di disastro ambientale, causato dalla formazione di un enorme lago di percolato che ha contaminato le falde acquifere sottostanti la discarica.
«Decisione necessaria – ha spiegato il procuratore capo Francesco Messineo – Perché il percolato si è infiltrato nelle falde acquifere e rappresenta un pericolo per gli abitanti».
C’è il problema dello smaltimento illecito di rifiuti fognari che non risparmia neanche la spiaggia di Sampieri e quella di Fornace, nel Ragusano, famosa in tutto il mondo per la fiction sul commissario Montalbano.
A gennaio del 2013 i giudici di Catania hanno sequestrato due villaggi turistici, dopo che le indagini coordinate dalla Procura distrettuale antimafia di Catania avevano riscontrato ripetuti episodi di inquinamento a mare.
E infine c’è lo scottante capitolo dello smaltimento dei rifiuti speciali, camuffati come non pericolosi dalla criminalità organizzata.
Succede a San Filippo del Mela, nel Messinese, dove è in corso una strage silenziosa. Dei 220 dipendenti della ditta Sacelit che produceva eternit, 113 sono già morti a causa di malattie direttamente collegabili all’inalazione dell’amianto.
Ma come se tutto questo non bastasse, continua lo smaltimento illecito dei rifiuti dell’ex cantiere. Tra il 2007 e il 2009 i prodotti contaminati sarebbero stati smistati come rifiuti normali in tre discariche: a Priolo, Gavignano e Lamezia Terme. Undici imprenditori sono indagati con l’accusa di traffico illecito di rifiuti pericolosi in concorso.
E, sempre a Messina, una recente inchiesta dell’aprile 2013 colpisce i cantieri navali della zona Falcata. Qui gli investigatori hanno scoperto che dal 2006 in poi sono state smaltite 2.200 tonnellate dei residui altamente inquinanti ottenuti dopo la smerigliatura delle pareti interne ed esterne delle navi.
Quella sabbia, che rimane dalla pulizia della vernice, della ruggine e di tutto il materiale che rimane attaccato alle imbarcazioni e che contiene metalli pesanti, sarebbe stata trasportata da ditte compiacenti presso impianti di recupero della zona come semplice materiale misto di demolizione, o addirittura disperso in luoghi ignoti.
Secondo l’Arpa, questo sistema, che ha prodotto all’azienda napoletana un profitto di 226mila euro, ha contaminato il suolo in profondità.