I soldi dei mafiosi
Delle due massime autorità dello stato, una è democratica, l’altra fascista. “Festa” dei lavoratori, il primo maggio, assume un significato sarcastico: farci la festa. In più, la mafia – specifica di questo Paese – avanza e i suoi naturali nemici, magistrati e cronisti, sono ormai spalle al muro. La mafia, da potere, si fa regime. Il popolo, indebolito, non reagisce. Nè reagiscono i giovani.
Eppure, in cifre reali, neanche un terzo della popolazione (contando gli astenuti, e togliendo gli abitanti a cittadinanza negata) appoggia ciò che succede. Gli altri, scoraggiati e dispersi. I capi delle due “opposizioni”, in Sicilia, nel giro d’un paio di giorni sono passati tutt’e due al nemico. Questa è la situazione. Non è più tempo di dibattiti nè d’alchimie “politiche”, nè d’illusioni.
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La lotta va portata oramai, e va portata subito, al cuore dell’invasore. Cioè del sistema mafioso. Che da gran tempo non è più, e non ci scusiamo di ripeterlo, patologia criminale, ma potere. Il cuore di questo potere è finanziario. E’ politica, naturalmente, è impresa, è traffico illegale e legale, è anche violenza pura. Ma è soprattutto uso strategico del denaro. Ed è là che è vulnerabile, è qua che bisogna unirsi e lottare, con tutta l’esperienza maturata in decenni di movimenti civili e popolari.
Oggi, primo maggio, noi dei Siciliani onoriamo Pio La Torre non con commossi dibattiti ma riprendendo il suo disegno, portandolo su un piano preciso e più avanzato: non solo i beni ma anche i capitali mafiosi vanno colpiti con la giustizia e la lotta e restituiti al popolo, alla Nazione.
Riccardo Orioles
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Matteo Iannitti
Ladri di bambini
Catania: il Consiglio comunale taglia, i bambini di undici anni rubano
“Abbiamo la sua motocicletta in via Dusmet”. Lunedì sera ero in Consiglio comunale, a Palazzo degli elefanti. La discussione sul bilancio era iniziata da qualche ora quando mi ha chiamato la Questura, dicendomi quelle parole. Avevo posteggiato davanti la posta, dietro piazza Università. Lascio i posti riservati al pubblico e m’incammino verso piazza Borsellino. Trovo una volante della polizia e la mia moto con l’accensione scassata e il bloccasterzo rotto. Se l’erano proprio rubata. E con immensa fortuna l’avevo ritrovata prima ancora di sapere del furto.
Sul marciapiede umido, al freddo, accovacciato, guardato a vista da due poliziotti, un bambino. Undici anni. Alle dieci di sera, non so se solo o in compagnia, ha “schiavettato”, rotto il bloccasterzo e portato la mia moto da piazza Università a via Dusmet, prima in sella e poi a spinta. Appena ha visto la polizia si è fatto prendere dal panico, ha abbandonato la moto ma è stato comunque raggiunto da quei grandi uomini in divisa. La moto era molto ma molto più grande di lui. Teneva gli occhi bassi. Ha detto alla polizia di aver ricevuto venti euro da “uno nero” per portare la moto in piazza Alcalà.
Abita a San Cristoforo ed è solo un bambino. Io a undici anni giocavo a casa e alle dieci ero già a letto. Per lui uno dei giochi è anche questo: rubare una moto. Lo hanno portato in Questura, facendolo sedere in una gelida stanza. Per aspettare mamma e papà, che lo venissero a prendere, per riportarlo a casa, finalmente a letto. Suo padre era stato fermato qualche giorno prima, i poliziotti lo hanno riconosciuto non appena entrato in questura.
Avevo trovato la moto ma quel bambino era perso. La mia testa era al GAPA, il centro di aggregazione che a San Cristoforo da ventinove anni tenta di sottrarre alla criminalità i bambini del quartiere. Al Centro Midulla dove ogni giorno decine di bambini della sua stessa età vanno a divertirsi, con il circo, con i giochi, quelli veri. Perché lì di Salvo, Jonathan, Micheal, Marco, Matteo ce ne sono tanti, tutti che si comportano da adulti ma bambini pronti a inseguire una palla, a truccarsi il viso, a piangere per una caduta.
Quel bambino aveva incrociato così stupidamente la mia vita. Quasi in arresto in quei tristissimi uffici della polizia. A mezzanotte, con addosso i suoi occhi, quelli del bambino che mi ha rubato la moto, sono tornato in Consiglio comunale. A prendere atto che milioni di euro venivano tagliati con freddezza a scuole, servizi sociali, diritto allo studio, cultura, centri di aggregazione. Proprio a Catania, la città dove i bimbi di undici anni rubano le moto.
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Giovanni Caruso
I sommersi e i salvati
Oggi Il marinaio ha sconfitto
il politico. E perciò sorride
“GRAZIE per la solidarietà” dice il cartello dei marinai sulla passerella della Sea Watch. La passerella da cui poco prima sono scesi in terra di Sicilia uomini, donne e bambini in fuga dai lager libici.
Sorridono i marinai della nave, i volti scavati dal vento. Non nobili pescatori, non militari costretti a non salvare più. Ma semplici marinai, “pirati” disobbedienti a tutto salvo che alla legge del mare. Il mare che dà e che toglie, il mare libero e infinito. “Io – dice il mare – non ho confini. Io amo chi mi rispetta”. Quelli della Sea Wacht lo rispettano e navigano per amore.
Salvano chi l’Europa rifiuta, afferrano con mani forti le mani di chi ha la pelle “sbagliata”. Di chi senza di loro sarebbe inghiottito dalle onde e dall’egoismo odiatore. .
Noi donne e uomini della Catania buona abbiamo accolto sul molo quei marinai, il molo che vide partire i nostri emigranti, i nostri nonni. I marinai in silenzio stringono le nostre mani. Mani che lottano per i diritti in terraferma, mani che lottano in mare per “i sommersi e i salvati”.
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