I siculo-italiani
Altro che “cattivi” del Nord…
E’ opportuno che i nostri giovani si convincano che i mali della Sicilia non furono e non sono tuttora causati solo dai “cattivi” del Nord; è opportuno, invece, che riconoscano che illustri e potenti siciliani hanno, dall’Unità in poi, badato a particolari interessi di classe, trascurando, quindi, un progetto di crescita dell’intera popolazione siciliana.
“ …Si affermò il nuovo tipo di siciliano, che esprime, interpreta e rappresenta gli interessi della sua terra natale ma nello stesso tempo li trascende, li subordina e quando necessario li sacrifica o li trascura in un quadro di riferimento italiano più generale. Nacque il siculo-italiano”. (Renda, 1999)
Partendo dalla citazione di Francesco Renda, tratta dalla Storia della Sicilia è possibile collocare nel tempo e nello spazio la nascita di questo nuovo esemplare e tipo di nuovo uomo: è il 16 settembre del 1866 e a Palermo, in verità, ne nascono due di “siculo-italiani”. Renda si riferisce a Francesco Crispi ed al marchese di Rudinì.
Il Regno d’Italia era stato proclamato da appena cinque anni e la condizione sociale ed economica della Sicilia era ulteriormente aggravata. Tutte le promesse e le aspettative della “liberazione” garibaldina erano andate deluse: nessuna distribuzione delle terre demaniali ai contadini, neppure di quelle confiscate di recente alle congregazioni religiose, istituzione della leva obbligatoria che causò una diffusa renitenza con conseguente formazione di bande e, quindi, una sistematica azione repressiva e di assedio di numerosi centri per scovare giovani renitenti, licenziamenti negli uffici statali.
La “tassa sulla miseria”
Fu, inoltre, reintrodotto il dazio e nuove tasse, la più odiosa fu quella sul macinato, che fu definita “tassa progressiva sulla miseria”. Tutte queste misure erano state causate dal deficit nel bilancio dello Stato sabaudo che fu “spalmato” sui nuovi territori acquisiti nel 1860. Si stampò, addirittura, della carta moneta e si arrivò alla famosa goccia che fece traboccare il famoso vaso: la tassa sui sigari e, a Palermo, l’abolizione della festa di Santa Rosalia.
Tutto ciò produsse un malcontento diffuso in ampie frange dei vari strati sociali e la formazione di una miscela esplosiva che scoppiò dal 16 al 23 settembre e che fu battezzata “rivoluzione del 71/2”.
Operai, contadini, artigiani, impiegati, clericali, borbonici, renitenti, banditi soldati, piccoli commercianti, bottegai scesero per le strade di Palermo e nella notte tra il 15 e il16 settembre 1866 piombarono sulla città tre¬mila e più uomini provenienti dalla campagna.
Erano guidati da quegli stessi volontari che erano stati con Garibaldi nel 1860. Si unirono alla folla di 30, 40 mila palermitani, esausti per le disastrose condizioni econo¬miche, per la feroce pressione fiscale e poliziesca della Destra, nel conte¬sto nazionale della fallimentare conduzione della terza guerra d’indipendenza a causa delle sconfitte per terra a Custoza e per mare a Lissa.
Sette giorni e mezzo
I rivoltosi tennero in scacco per sette giorni e mezzo le forze al comando del generale Cadorna che con 40.000 uomini riconquistò casa dopo casa, via dopo via, quartiere dopo quartiere, il controllo dell’intera città, presa pure a cannonate dalla flotta.
Si contarono alla fine circa duecento caduti tra i soldati di Cadorna, non si contarono quelli tra i rivoltosi e tra la popolazio ne civile, o meglio non si volle contarli. Furono migliaia, secondo gli storici, i caduti e migliaia quelli passati per le armi.
La rivolta del 1866 rappresentò l’ultimo rigurgito rivoluzionario delle componenti ormai isolate, solitarie, disperate dei democratici, repubblicani, garibaldini e mazziniani della prima ora.
Per le strade si gridava “viva la Repubblica” e si portavano immagini della Madonna, di S. Giuseppe e del Signore e tante bandiere rosse: l’Internazionale era appena e nata vi avevano aderito Giuseppe Badia e Lorenzo Minneci, pure loro per le strade assieme ai fraticelli delle congregazioni e assieme a centinaia di donne urlanti e scatenate a saccheggiare le case dei ricchi.
La rottura della società siciliana
Fatte salve le riserve di storici del calibro di Giuseppe Carlo Marino e di Francesco Renda sulla mancanza di una coerente direzione politica del moto che fu considerato come “malandrinaggio collettivo” o come “fragorosa jaquerie senza prospettive”, si deve senza alcun dubbio affermare che in quei giorni si amplificò l’irreversibile rottura nella società siciliana che collocò da una parte i liberali unitari, la borghesia agraria mafiosa, quei repubblicani e democratici ormai alleati con il baronaggio mafioso e dall’altra i ceti popolari e proletari.
Crispi e il marchese di Rudinì ritennero di rappresentare i ceti dominanti siciliani allineandosi agli equilibri nazionali che cementarono l’alleanza tra i ceti dominanti del Nord con quelli del Sud.
Ricordare le parole di Renda riportate all’inizio serve per capire e scoprire chi, come e perché ha diretto verso una certa direzione i rapporti tra la periferia “siciliana” ed il potere centrale “italiano”.
Nei decenni successivi, fino ai giorni nostri, ci sono stati tanti altri siculo-italiani che hanno tradito le aspettative del popolo siciliano ed hanno ritenuto di salvaguardare i loro interessi e privilegi.