sabato, Novembre 23, 2024
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I nuovi intellettuali

Rosalba Cannavò, una delle primissime militanti dei Siciliani giovani, scrisse la prima delle molte tesi di laurea dedicate a Giuseppe Fava. Una piccola e combattiva casa editrice siciliana, la Cuecm di Salvo Torre, ne ricavò un libro, di cui questa era l’introduzione 

Chi scrive ha avuto con Fava un rapporto singolare. Un rapporto prima lontano, inconsapevole, nato alla fine degli anni Sessanta attraverso la lettura di Processo alla Sicilia, appassionato reportage dalle zone del sottosviluppo. Un rapporto divenuto più consapevole poco più di una dozzina di anni dopo con la lettura de l Siciliani, il mensile messo su da lui, di nuovo in condizioni di estrema difficoltà, nella Catania assurta a nuova capitale di mafia. E diventato infine ravvicinatissimo attraverso il contatto con la redazione dello stesso mensile dopo la sua morte.

Ed è stato proprio in questa terza fase che la curiosità per la figura dell’uomo, il fascino delle sue scelte di vita, l’intelligenza dell’analisi condotta sulle vicende della sua città e della sua isola, hanno stimolato una rilettura più attenta, distesa, meditata delle sue opere e dei suoi scritti giornalistici.

L’impressione, o meglio la convinzione che ne ho ricavato è stata quella di trovarmi di fronte a uno dei maggiori intellettuali siciliani di questo secolo.

Non c’è- sia chiaro – in questa affermazione il peso che potrebbe esercitare il cosiddetto giudizio di valore, necessariamente positivo di fronte a un uomo che per coraggio e per amore della sua terra è andato incontro alla morte. Si tratta di una valutazione obiettiva. Credo davvero che, sia pure con le migliori intenzioni, si faccia un torto a Giuseppe Fava classificandolo tra i “giornalisti uccisi dalla mafia”. Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere la funzione dell’intellettuale nella Sicilia degli anni Ottanta. Dietro il suo assassinio non c’è d’altronde la paura dello scoop compromettente, non c’è la notizia-polveriera che deve rimanere in un cassetto.

Sta una produzione multiforme, un complesso integrato di parole, di sentimenti, di capacità, di analisi, di abitudini, che certo si trasfondono pienamente nella sua attività giornalistica e le fanno qualcosa di particolare; ma che sono prima di tutto opposizione intellettuale.

Si tratta di una figura anomala, per usare un aggettivo che è stato fatto incombere negli ultimi anni sulle vicende siciliane.

Una figura poliedrica, che ha accoppiato in sé la straordinaria forza della denuncia civile con una prosa tagliente, capace di squarci improvvisi e di particolari insistiti, degustati con voluttà al momento stesso che si accinge a tornare ai colori forti. Una figura che ha immesso nel panorama della cultura siciliana dei suoi anni la ribellione: ribellione alla rassegnazione, al lamento dello sconfitto, alla nostalgia dell’emigrato, ribellione all’idea che non vi sia altra forza a muovere la storia se non l’avidità dell’uomo. E forse perciò per questo bisogno di costruire vita anziché ricamarne, il suo stile è così lontano dall’ ovattata ironia, dal prezioso intarsio, dal ritmo raffinato dei suoi contemporanei.

La sua bellissima polemica con Sciascia su I Siciliani del maggio 1983 è, vista oggi, uno dei documenti più nitidi del conflitto tra due modi di essere intellettuali, tra due culture e due Sicilie: la Sicilia che vuole trovare anzitutto in se stessa la forza e la fierezza di reagire e la Sicilia scettica che ama il dubbio fino a trasformarlo in fede.

Ma non è solo su questo piano che Fava porta tutta la carica innovativa del proprio atteggiamento intellettuale. C’è pure la sua capacità di trasformarsi in organizzatore di azione e di pensiero. Che è un corollario della sua caldissima fiducia nella vita (una fiducia che è pur percorsa da qualche vena di pessimismo): poiché è qui che nasce la sua disponibilità a dare agli altri, la persuasione che insieme si possa costruire.

Anche per questo si dice troppo poco quando si parla di Fava solo come del “giornalista ucciso dalla mafia”.

Quel giornalista, in realtà, creò altri giornalisti, diede vita ad un collettivo, fondò una testata tirandola fuori con tenacia dal mondo dell’immaginazione. Fu un maestro. Un maestro che ha insegnato a battersi, coll’arma della parola, a un gruppo di giovani.

Ecco perché scoprirlo, apprezzarne il percorso, diventa soprattutto un compito di chi si è trovato nella stessa temperie civile e ha compreso fino in fondo il valore della sua rottura, delle sue intuizioni o dimensioni analitiche, del rapporto stabilito tra informazione e cultura. Ed ecco perché è importante questo libro, che rielabora la tesi di laurea dell’Autrice, già studentessa dell’università di Catania.

Perché proviene da una giovane, da un’esponente di quella generazione di siciliani che nella rottura culturale operata da Fava si è identificata, e attraverso quella rottura ha imparato a guardare il mondo. In fondo, dopo quel 5 gennaio del 1984, proprio gli studenti furono la linfa di un movimento di opinione che si trasmise, per canali disparati, a tutto il paese. Un movimento di solidarietà con una rivista e con una volontà di giustizia. Non si tratta dell’unica tesi di laurea dedicata a Giuseppe Fava. E anche questo è un segno che incoraggia.

Nelle scuole, nelle università di tutta Italia, sempre più frequentemente mi capita di sentirmi chiedere di parlare di questo intellettuale anomalo. Vuoi dire che, nonostante i media, le idee circolano; quelle, •voglio dire, che non sono ammesse al grande circuito telematica.

Il ritratto di Fava fornito da Rosalba Cannavò può essere, con le informazioni i riferimenti e le testimonianze che contiene o a cui rimanda, un mezzo per capire e sapere di più, un primo strumento informativo in attesa e nella speranza che altri ancora ne vengano apprestati. Da studenti siciliani. E magari da nuovi intellettuali.

Dalla prefazione a “Giuseppe Fava, storia di un uomo libero” di Rosalba Cannavò, Cuecm 1990

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