I nuovi cantautori
La definizione che ne dava lo Zingarelli era quanto mai cauta e sbrigativa: “chi canta canzoni scritte o musicate da lui stesso.”
Una banalità, ma era una pubblicazione del 1971 e il fenomeno, e di conseguenza il termine, erano ancora in via di formazione, per cui la leggerezza è perdonabile. In realtà la parola “cantautore” nasce e assume un significato ben preciso già tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, quando sull’onda del boom economico e di una più capillare diffusione della televisione e della scolarizzazione, si assiste al passaggio definitivo dalle tradizionali culture popolari regionali e locali a una nazionale unificata.
Nella musica, jazz e rock & roll dall’America e il beat dall’Inghilterra, erano enzimi potenti che venivano ad agitare la rassicurante tradizione melodica del bel canto, e ai nomi di Luciano Tajoli, Nilla Pizzi e Claudio Villa, si sostituivano di prepotenza quelli di Buscaglione, Modugno, Celentano e Mina.
In questa ondata di nuovo trovò però spazio anche un filone che più che al rock & roll si rifaceva al jazz, a Dylan, e in Europa a Brel e Brassens. Questi “alternativi” per i quali venne coniato il termine “cantautore” si chiamavano Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Sergio Endrigo, Piero Ciampi, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Fabrizio De André… e in sostanza, furono quelli che inaugurarono in Italia il filone della canzone d’autore, quella stessa che, assumendo poi più marcati connotati sociali, conobbe negli anni ’70 il suo periodo di massima espressione ed espansione, e fu la voce stessa di quel tempo, autenticamente popolare, ma al contempo colta e raffinata.
Fu in quegli anni quindi che la figura del cantautore venne definitivamente stigmatizzata e consegnata all’uso dei dizionari. Gli anni ’70 però come sappiamo finirono con i successivi e tragici ’80 (di cui paghiamo ancora pesantissime tare culturali e non solo), e tra un aperitivo e l’altro i vecchi, noiosi, poetici e malinconici cantautori, furono accantonati insieme alle loro introspettive problematiche, per far spazio ai nuovi brillanti, emergenti, vuoti e sorridenti cantori rappresentanti del nuovo.
Dei vecchi, esclusi il “lontano e inafferrabile” De André e pochi altri, quelli che sopravvissero lo fecero a rappresentanza di sé stessi, non più di una generazione portante. I veri cantautori negli anni ’80, quelli che più fedelmente ne rispecchiavano la vacuità e ne cantavano le forme, erano altri, ai quali ne seguirono anonimamente negli anni altri ancora. Ma tutti sostanzialmente tali da non lasciare tracce, se non di superficie.
Da un po’ di tempo a questa parte però la situazione sembra essere cambiata, i paletti sono saltati tutti, ed è evidente che per definire realisticamente la figura del cantautore non sono più sufficienti né la vecchia descrizione che ne dava lo Zingarelli, né tanto meno quella relativa ai vari Paoli, Lolli o Guccini.
Ne esistono ancora di quella specie, e anche di raffinati (Gianmaria Testa, Pippo Pollina, Piero Sidoti, Flavio Giurato, per non dire del prof. Vecchioni e di De Gregori), e tanti altri ne nascono ogni giorno, ma non è più la stessa cosa, le pagine che questi autori stanno scrivendo sono individuali, appartengono al prosièguo di un percorso divenuto privato e consegnato ormai, nel migliore dei casi, alla classicità.
I veri cantautori di oggi, gli unici forse che hanno davvero qualcosa da dire, che fanno a pugni col presente perché del presente ne fanno un mucchio e lo vedono vecchio schifoso e inaccettabile, ancora una volta sono altri, e ora si chiamano rapper. Difficile accettarli musicalmente, sgraziati come sono, per chi è incanutito al docile accompagnamento di una chitarra acustica, difficile perfino saperli se li si cerca inseguendo forme accettabili, ancora più difficile scovarli perché il tempo ha una sua direzione inconvertibile, e loro vivono ancora, per loro fortuna, nell’unico mondo reale possibile, quello dei sogni e delle illusioni.
Ma questo, finché avranno vent’anni, nessun dizionario lo scriverà mai.