I colonnelli di Provenzano
La Cassazione conferma i due secoli di carcere per gli imputati
Due secoli di condanne per 18 tra gregari e colonnelli del boss Bernardo Provenzano, arrestati nel giugno 2006.
E’ questo il risultato raggiunto con la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato per la seconda volta le pene inflitte in secondo grado dai giudici d’Appello di Palermo. L’ultimo “sigillo”è stato dato lo scorso 12 novembre mentre i Supremi giudici si erano già pronunciati con importanti condanne circa un anno fa (il 12 ottobre 2011). Allora vennero condannati definitivamente boss come Nino Cinà (imputato che ha scelto il processo in rito ordinario e condannato a 16 anni), o al giovane capomafia Gianni Nicchi (13 anni) ma nella sentenza vennero anche annullate diverse condanne per rideterminazione delle pene. Un fatto che ha obbligato i magistrati di secondo grado a riconteggiare le stesse per poi ripresentarsi ancora una volta in Cassazione. Ora, la conferma del verdetto deciso sulla base dei principi fissati dalla sentenza di annullamento con rinvio. A giudizio vi erano boss del calibro di Nino Rotolo, Francesco Bonura, Giuseppe Savoca Andrea Adamo, uomini d’onore che hanno fatto la storia di Cosa Nostra nei primi anni del nuovo millennio e non solo.
A 26 anni e 8 mesi e’ stato condannato Antonino Rotolo, a 14 anni e 8 mesi Andrea Adamo, a 23 anni Francesco Bonura, a 10 anni e 10 mesi Gaetano Badagliacca, a 10 anni 20 giorni Pietro
Badagliacca, a 13 anni e 6 mesi Vincenzo Di Maio, a 18 anni Pietro Di Napoli, a 15 anni e 10 mesi Tommaso Inzerillo, a 11 anni e 9 mesi Alessandro Mannino, a 11 anni e 1 mese Giovanni Marciano’, a 11 anni e 10 mesi Nunzio Milano, a 11 anni e 10 mesi Settimo Mineo, a 11 anni e 10 mesi Francesco Picone, a 11 anni e 6 mesi Salvatore Pispicia, a 12 anni e 8 mesi Gaetano
Sansone, a 8 anni e 5 mesi Giovanni Nicoletti, a 5 anni Giuseppe Savoca e a 9 anni Carmelo Cancemi.
Con l’operazione “Gotha” del 20 giugno 2006 vennero decapitati i vertici delle famiglie mafiose di Pagliarelli, Uditore e San Lorenzo. Decisive, per le indagini, le microspie piazzate dalla Squadra mobile di Palermo in un capanno di lamiera dello stabile in cui il boss Nino Rotolo viveva agli arresti domiciliari. E’ da queste intercettazioni che si sono rivelate, nei primi anni del millennio, profonde spaccature in seno a Cosa Nostra. A fomentare la divisione erano boss d’alto rango come Antonino Rotolo, Antonino Cinà (medico e capomafia di San Lorenzo) e Francesco Bonura (imprenditore edile e sottocapo della famiglia di Uditore). I tre formarono un triunvirato volto ad osteggiare l’ascesa di Salvatore Lo Piccolo e suo figlio Sandro (Tommaso Natale). Non a caso in palio tra i due schieramenti vi era anche la successione nella leadership mafiosa dopo l’arresto dell’ultimo padrino, Bernardo Provenzano (26 aprile 2006).
In quel box di lamiera i boss discutevano di affari, pianificavano le strategie criminali e sviluppavano i progetti per eliminare (anche fisicamente) il rivale emergente. A Rotolo, che mirava al controllo di Palermo grazie all’alleanza con i Savoca di Brancaccio, non piaceva l’aumento di potere dei boss di Tommaso Natale, i quali si stavano allargando anche verso San Lorenzo, così aveva sviluppato una serie di “trame” per convincere quanti più possibile (Provenzano compreso), della necessità di sbarazzarsi dei Lo Piccolo.
Il pretesto venne “servito” quando “Totuccio” decise di farsi promotore del ritorno in Sicilia degli Inzerillo.
Con la conclusione della seconda guerra di mafia, dopo aver ucciso l’allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontade ed il suo braccio destro Totuccio Inzerillo, e tutti quelli a loro erano fedeli, i corleonesi si insiediarono definitivamente al vertice della mafia siciliana. Riina, in primis, e Provenzano imposero nuove regole, riordinarono le famiglie e scoinvolsero anche le alleanze politiche. Sopravvissero in pochi a quella mattanza. Per aver salva la vita o si saliva sul carro dei vincitori, come i Lo Piccolo, o si fuggiva negli Stati Uniti.
In nome degli affari la Commissione di Cosa Nostra siciliana e le famiglie americane arrivarono ad un compromesso: agli “scappati”, come i membri della famiglia Inzerillo, sarebbe stata risparmiata la vita, a patto che, a prescindere dall’età e dal sesso, non “rimettessero più piede” a Palermo ed in provincia. A sigillare il patto era quindi stato nominato come garante Rosario Naimo, uomo d’onore di Tommaso Natale, molto vicino al boss d’oltreoceano “Pippo” Gambino. Alcune vicissitudini giudiziarie, come l’espulsione dagli USA di Rosario Inzerillo (dicembre 2004), fratello di Salvatore, Santo e Pietro Inzerillo, tutti uccisi dai corleonesi, resero necessario qualche cambio di regole. Gli scappati potevano così rientrare in Italia a patto che informassero Naimo di ogni spostamento nel bel Paese. Oltre a Rosario Inzerillo erano già rientrati in Sicilia Giuseppe Inzerillo, figlio di Santo, e Francesco “u tratturi”, figlio di Pietro, e si stavano creando i presupposti per far tornare Giovanni Inzerillo, figlio di Salvatore.
Sulla questione era inevitabile avere un parere dal boss supremo, Bernardo Provenzano. Numerosi i pizzini, pieni di interrogativi su come scogliere il “nodo”, pervenuti all’allora capomafia. La “sentenza” degli anni Ottanta era ancora valida? Il padrino dava il proprio benestare al progetto dei Lo Piccolo? Non vi è reale chiarezza sulla risposta del boss. Il capo di Cosa Nostra da una parte richiamava al rispetto degli impegni del passato, dall’altra, nel tentativo di non far degenerare la situazione, nascondeva di sapere qualcosa in merito. Addirittura si disse favorevole, rispondendo ad una missiva di Nicola Mandalà che spiegava i motivi contingenti del ritorno in Sicilia degli Inzerillo, rimpatriati in Italia dalle autorità statunitensi.
Provenzano, fino all’ultimo, aveva provato a placare gli umori tra le due correnti, ma invano, Così disse a Rotolo: “Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno…a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo”.
Il boss di Pagliarelli, grande tragediatore, non ne voleva sapere. Era riuscito a portare dalla sua parte anche Francesco Bonura e Gaetano Sansone, inizialmente intenzionati a conoscere il parere di Provenzano. Agire drasticamente era per lui prioritario. Temeva la vendetta dei giovani Inzerillo che, a suo dire, riunitisi in aereporto “si stavano facendo la conta” degli oppositori, “quattro gatti”
L’operazione “Gotha” non si è rivelata inchiesta chiave solo per capire la composizione dei mandamenti e le rivoluzioni interne della Cosa Nostra di quegli anni. Gotha ha raccontato della nuova evoluzione negli affari della mafia siciliana nel campo della droga e delle estorsioni. Ha messo in evidenza l’evoluzione dei rapporti con la politica, approfittando della presenza di “figure amiche” come Giovanni Mercadante, medico ed ex deputato regionale di Forza Italia condannato in primo grado a 10 anni e otto mesi per associazione mafiosa. Soprattutto ha messo a fuoco i rapporti tra le famiglie siciliane e quelle statunitensi, confermati successivamente con l’operazione “Old Bridge”. Rapporti, da una parte e l’altra dell’oceano, mai interrotti e che ancora oggi appaiono forti, nonostante gli arresti eccellenti degli ultimi anni che hanno scosso, ma non abbattuto, la mafia siciliana.