Gli “indicibili intrecci” di quegli anni ’70
Fuor di processo, questa storia della “trattativa Stato-mafia” ricorda altre epoche, ma anche una serie di deja vu.
E poi conferma che la cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia ha una sua coerente evoluzione. Mostruosa, ma coerente e niente affatto dietrologica; perché disseminata di concreti e “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.
Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alle stragi del 1992. Ma ci sono episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità di “scambi” indicibili tra apparati e capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati dello Stato hanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti da questa indicibile scena.
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Prendiamo il contesto dell’omicidio del colonnello Giuseppe Russo alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977. Russo fu un investigatore dell’Arma al centro di fatti e intrecci mai chiariti, sempre depistati in modo che non approdassero mai a una verità giudiziaria definitiva.
Russo era uno tosto. Indagava ad esempio sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose degli anni 70 a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i loro rivali palermitani piazzavano autobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza).
Russo era stato collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politica, imprese e mafia.
Per decenni, la scena era stata questa: vescovi che negavano l’esistenza della mafia, procuratori della repubblica e giudici di corte d’assise che alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava), forze dell’ordine che usavano il metodo dell’infiltrazione o del “patto” di non belligeranza per controllare il “fenomeno”.
Gli unici che facevano casino senza patti erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro venivano uccisi (vedi la strage di Portella e poi i delitti dei sindacalisti Salvatore Carnevale e Placido Rizzotto). In Sicilia questa è stata la storia dei 25 anni che seguirono alla seconda guerra mondiale.
Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel patto di non aggressione, rischiava di restare solo. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa anche di fare luce sugli affari economici dei corleonesi. Voleva capire le nuove relazioni e il nuovo, mostruoso patto tra i corleonesi e la classe politica e le imprese che crescevano in quel contesto.
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Chi era Russo? Uno “sbirro” tipico dei suoi tempi: di destra, autoritario, sospettoso. Determinato.
Chi lo ha conosciuto, ricorda che, nei mesi che precedettero la sua morte, aveva dichiarato di voler andare in pensione perché “stanco” e perché voleva “mettersi in affari”; aveva creato con un suo collaboratore (il carabiniere Giuseppe Scibilia) una società e voleva partecipare alla gara per gli appalti della diga Garcia, l’opera pubblica “madre” di molti insanguinati intrecci politico-mafiosi.
Ci fu chi ipotizzò che lo facesse per “infiltrarsi” nella mafia che si era già trasformata da agricola in urbana e diventava politica e imprenditrice. E certo, la pratica degli “infiltrati” o delle inchieste segrete e degli “informatori” ha fatto parte del bagaglio investigativo tradizionale dell’arma dei Carabinieri.
Nella storia del colonnello Russo ci fu un lato oscuro, legato all’inchiesta sulla strage di Alcamo Marina (27 gennaio 1976), due carabinieri uccisi misteriosamente e un’indagine depistata con un testimone costretto ad accusare quattro balordi, poi assolti.
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Il colonnello Russo fu ucciso proprio in quel momento e in quel contesto, nel quale il patto e le “trattative” non potevano limitarsi più alla gestione di Corleone e dintorni, perché la mafia si era fatta imprenditrice.
L’assassinio del colonnello Russo fu per questo forse il primo delitto di alta mafia. E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi sui fatti di Ficuzza, per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e un balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni messe alla base del delitto Russo? Risibili, piccole storie locali.
A condurre fuori strada le indagini sull’omicidio Russo fu il successore del colonnello al vertice del reparto operativo, Antonio Subranni : proprio l’alto ufficiale che – negli anni scorsi – è stato sospettato di aver avuto un ruolo nella trattativa condotta da Vito Ciancimino nell’estate delle stragi del 1992. Si tratta dello stesso Subranni che, da investigatore, ha negato il movente mafioso per Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978 (stesso giorno del ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro). Impastato denunciava il potere e le relazioni politiche del boss Tano Badalamenti e, quando fu trovato dilaniato da una bomba, fu fatto passare, con l’avallo degli investigatori dell’epoca, per un terrorista.
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Ecco, questi erano contesto, patti e misteri dell’epoca in cui Russo faceva l’investigatore sulla mafia degli anni 60 e 70 dello scorso secolo. Epoche di “indicibili intrecci”, patti, depistaggi e trattative occulte.
Venti anni dopo il delitto Russo, nel 1997, gli imputati condannati nel primo processo sono poi stati prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella e così via) è stata indagata, processata e condannata. Il nuovo processo ha accertato i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché? Forse perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scellerati tra Stato e mafia? Oppure perché – anche usando forse “strumenti arditi” – cercava una verità sul “patto” che si andava stringendo tra mafia militare, politica e imprese a Palermo?
Bravissimo Antonio, la memoria storica non deve sparire, Riccardo e voi tutti finché c’è fiato dovete raccontare!