Giudice e galantuomo
Un ricordo di Giambattista Scidà
Quando, nei primi mesi del 1983, le nostre strade s’incrociarono, il giudice Giambattista Scidà era presidente del tribunale dei minorenni già da anni.
Scidà era un liberale all’antica e illuminista. La cosa che colpiva di lui era lo stile assolutamente fuori contesto: lui non gridava mai, vestiva sempre con giacche doppiopetto, impeccabili e démodé, i capelli bianchi impercettibilmente disordinati, parlata forbita, gesti morbidi e solenni.
Sussurrava cose terribili sui destini collettivi, in una città nella quale tutti gridavano o aggredivano e, in ogni caso, nessuno ragionava. Era un uomo che sembrava uscito dal film In nome della legge di Pietro Germi, tratto dal romanzo Piccola pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo, ma costretto a recitare sul palcoscenico di Corruzione al palazzo di giustizia di Ugo Betti.
All’epoca, Scidà era un’autorità nazionale in materia di criminologia minorile, ma conduceva per interesse personale raffinati studi storiografici sul Seicento e sul Settecento nelle contrade del versante orientale dell’Etna, dov’è nato.
«Siamo nella condizione di dover assistere al progressivo degrado di questa città. E perciò siamo chiamati, ciascuno nel proprio ruolo, a fare il doppio del nostro dovere» diceva.
E metteva dentro quel forbito fraseggio tutta la sofferenza del vecchio galantuomo catanese.
Era inevitabile che una persona come lui assumesse una posizione critica nei confronti del contesto, anche giudiziario, della città. Citava statistiche sulle forze di polizia che diminuivano mentre i reati aumentavano e parlava di uno Stato che si disarma di fronte alla mafia, denunciava il sovraffollamento del penitenziario cittadino, raccontava le storie di minorenni pericolosamente ospitati nelle carceri riservate agli adulti, e dunque esposti alla cooptazione nella cultura e nell’organizzazione mafiose.
Scidà metteva il dito nella piaga profonda della contraddittoria presenza dello Stato a Catania e pronunciava mille interventi pubblici che erano delle vere e proprie lezioni di civiltà, semplici e schiette. Citava Piero Calamandrei (senza mai farne esplicito cenno) e parlava come un severo padre di famiglia: «La giustizia deve essere un potere separato dagli altri due su cui si fonda il nostro ordinamento costituzionale, perché ha il ruolo di controllarli entrambi». Oppure:
«Questa comunità è malata perché non sa più dare un futuro degno di questo nome ai propri figli più disagiati».
Per dovere istituzionale, Scidà compilava quotidianamente le statistiche sugli spaventosi record di criminalità minorile che Catania andava conquistando annualmente, soprattutto nei quartieri più disperati e marginali. Spesso seguiva, oltre l’orario d’ufficio e personalmente, i casi umani che passavano dalla sua scrivania, sempre invasa da una montagna di fascicoli su mille storie di violenze: bambini comprati e venduti; adolescenti perduti, abbandonati, costretti a stare sui marciapiedi, o tossici, scippatori, maltrattati, picchiati, stuprati. Quella era l’umanità dalla quale Scidà non sapeva distaccarsi, poiché essa rappresentava il suo dovere quotidiano di funzionario di uno Stato assente.
«È un fissato!», «È un moralista!», cominciarono a sussurrargli dietro i colleghi, quasi che la moralità e la coerenza di cui si faceva portavoce rischiassero di diventare il principio di una pericolosa epidemia da arginare al più presto possibile.
Il presidente Scidà fu poi investito da aperte ostilità e cori corporativi quando passò alla denuncia formale, fatta anche di fronte al Csm, delle corruzioni e delle colpevoli distrazioni a palazzo di giustizia. È un giudice della categoria di quelli che pensano: «Poiché ho scelto questo mestiere, devo dare ogni giorno l’esempio alla collettività».
La redazione imparò molto da quell’uomo schivo, colto, sofferto, senza peli sulla lingua e con il gusto di dissentire di fronte ai soprusi. Orgoglioso di non essersi mai mischiato con il contesto, anche giudiziario, di quella città malata.
(da “Mentre l’orchestrina suonava Gelosia”, Mondadori 2011)
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