“Giochiamo a guardie e ladri?”
“Fac dda polis, fanculo alla polizia” e insieme a lui scappano altri dieci
Da lontano si sente una sirena che piano piano diventa forte, fanno male i timpani, e veloce va via. Occhi teste e mani sbucano da dietro gli alberi, il pericolo è passato, allora tutti attraversano la strada e corrono verso la rete: più in là c’è il traghetto per l’Italia e bisogna fare presto a scavalcare facendo attenzione, il filo spinato buca la carne e fa male. Ecco, un paio ce l’hanno fatta e sembra così facile che pare un gioco, si scherza, ma subito arriva un’altra sirena e ci sono pure le guardie del porto, niente da fare, tutti indietro verso gli alberi, presto! E si ride e si corre, si torna a nascondersi dietro i rami e le foglie con i vestiti sporchi e le scarpe da ginnastica.
“È un anno che sono qui in Grecia”. Uno di loro si ferma a parlare alla fermata dell’autobus, ansima a bocca aperta mostrando i denti, eccitato dalla corsa. “E da un anno provo a scavalcare quella rete”. Saif è scappato dall’Iran tempo fa. Ha il viso rettangolare con un pizzetto scuro attorno a un sorriso bianchissimo e tiene i capelli lunghi raccolti da un elastico. È alto, ha un fisico da cavaliere, potrebbe avere trent’anni. Il sole non lo aiuta a recuperare il fiato e l’asfalto davanti al porto di Patrasso gli butta in faccia l’aria umida e calda. La panchina della fermata scotta, Saif si sposta un po’ più vicino e confessa all’orecchio “Qui mi sento un prigioniero”. Dal fondo della strada arriva il suono di una sirena, lui scuote la testa e dice divertito, all’americana “Fac dda polis, fanculo alla polizia” e insieme a lui scappano altri dieci.
Il poliziotto è sempre lo stesso, guida una grossa enduro, e va girando lungo la recinzione del porto con gli occhiali da sole e i capelli corti e la faccia ben rasata. Fa il suo lavoro, sorveglia, e quando i migranti si avvicinano alla rete fa un po’ di casino fra sirene e clacson ma non li ferma. Li insegue e basta. Solo una volta, uno che è rimasto indietro rispetto al gruppo già nascosto poco lontano. Allora lui è molto vicino, forse si sente costretto, e chiede a voce alta senza scendere dalla moto “Documenti, passaporto?”. Quello di risposta gli allarga le braccia, è stanco e piano piano continua a correre. Il poliziotto lo manda a quel paese e scende dalla moto, passa il bagde alla porta di un casotto ed entra a prendersi un caffè. È ora di riprovarci, alcuni escono dai nascondigli, ma ci sta un uomo seduto sul prato che non partecipa al gioco. Dal viso sembra che viene dall’Asia, ha i tratti orientali e la pelle scura senza barba, e tiene in mano uno smartphone bianco: lo guarda e lo rigira più volte, ogni tanto se lo porta all’orecchio.
“Ehi ciao, da dove vieni?”
“Dall’Afghanistan – risponde lui piano – e tu?”
“Dalla Sicilia”.
Quando il poliziotto esce dal casotto, lui si stende per lungo dietro una siepe alta appena mezzo metro. Il poliziotto fa finta di non vederlo e continua la sua ronda. L’afghano si rialza, cammina più in là, si appoggia a un pilastro e guarda gli altri mentre sono aggrappati alla rete. Come da copione tutto finisce in una corsa pazza e allegra in direzione opposta, lui invece aspetta, si nasconde bene dietro il pilastro e quando tutti sono via ci prova da solo. Viene visto subito, nemmeno il tempo di passare la gamba oltre il filo spinato e torna indietro, sconfitto. E allora ricordo che era festa quando da bambino finiva la scuola e qualcuno diceva “Giochiamo a guardie e ladri? Io scappo e tu m’acchiappi”.
***
Filastrocca del migrante
Se mi tocchi tu m’acchiappi
e corriamo tutti quanti
tra le foglie ci mettiamo
e la faccia nascondiamo.
Se ti giri me ne vado
faccio tana con la mano,
tocco il muro e la rete
faccio un salto sulle spine
e se mi vedi io scappo
all’indietro me ne torno,
non mi volto vado in fretta
scappo via dal poliziotto.
E corriamo tutti quanti
tra le foglie ci mettiamo,
con i denti tutti bianchi
come bimbi noi ridiamo,
con la pelle tutta nera
come bimbi noi giochiamo.