Fuori di casa
E Catania sfrattò i bambini
“È na picciridduzza di sei misi cchi si cucca fora, ‘nterra o Garibaldi, lei u sapi chi vol diri? Abbiamo bisogno di una casa, basta chiacchiere! Finemula!” dice uno dei padri di famiglia presenti.
Stamattina, prima davanti al Palazzo degli Elefanti e dopo all’Assessorato ai servizi sociali, erano tante le famiglie e le persone esasperate nel non avere una casa. Tante mamme e papà con al seguito i loro piccoli, hanno avuto un colloquio prima con l’avvocato Spampinato, subito dopo con la dottoressa Campione, responsabile ai servizi sociali. Presenti anche Alessio Ossino, il cantante neomelodico che quattro mesi fa ha minacciato di buttarsi da un balcone sempre per una casa, Enzo che vive in un palazzo occupato, Giacomo che insieme alla sua famiglia è stato sfrattato qualche settimana fa, e tanti altri.
Alcuni sono riusciti ad ottenere un’ulteriore proroga sino al 21 agosto nei b&b dove alloggiano da diversi mesi ormai. Ma hanno ribadito tutti i motivi per cui questa del b&b non è affatto una “soluzione dignitosa”, per citare l’ex assessore Villari.
Sono riusciti soprattutto ad ottenere un b&b anche per Marco, che ha solo sei mesi e dorme per strada insieme ai suoi giovanissimi genitori. La madre, in attesa di un altro bimbo, è finalmente riuscita a sorridere quando ha adagiato il suo piccolo nel letto. Anche Antonella e Giuseppe stasera dormiranno in un letto.
Noi dei Siciliani diamo il nostro sostegno a queste famiglie, e non ci siamo dimenticati neanche di quelle di via Calatabiano, né di quelle sgomberate da via Furnari, né di Nello, o di Lucia e Alessandro. Ma nemmeno di tutte quelle facce al sole della stazione, o all’ombra dei porticati di Corso Sicilia. Non dimentichiamo tutti coloro che ogni giorno a Catania si ritrovano per strada, con le spalle al muro, in ginocchio. Senza una casa, senza un lavoro. Senza nulla. La lista di queste persone non fa che aumentare.
La signora Francesca: settantasei anni, e le macerie in via Crispi
“Sì, ce la stanno portando sul piatto d’argento! Non possiamo pretendere che ci danno una casa tantomeno quelle popolari, visto che ci sono liste e graduatorie infinite. Quantomeno si facessero carico delle spese per sistemare la nostra e recuperare almeno il lato dove non ci sono le macerie. Si parla di centinaia di mila euro per poterla sistemare” così racconta la signora Francesca. La notte del 26 febbraio di quest’anno stava dormendo nel suo letto, quando nell’edificio adiacente al suo esplose una bombola a gas.
Anche nella zona dei Cappuccini, negli anni Sessanta, esplose una bombola a gas che scoperchiò il tetto dell’edificio. Da allora, da quasi sessant’anni, quell’edificio è circondato da assi in legno e di ferro, una sorta di messa in sicurezza dove il lato verso via Plebiscito funge da espositore per i manifesti pubblicitari, mentre quello sulla stradina adiacente alla chiesa dei Cappuccini funge da prolungamento dei cassonetti della spazzatura. Tra le assi sfondate: materassi e roba buttata, spazzatura, topi.
“Quella notte sono stata svegliata dal rumore che sembrava il terremoto” continua la signora Francesca “Infatti mi sono vista piombare mio figlio in camera Mamma, mamma! urlava, per darmi aiuto. Il terremoto! dicevo io. No mamma, non è il terremoto, è stato uno scoppio! mi diceva lui. Stavamo dormendo, erano le due di notte. E poi tutto un trambusto di persone, sirene… Non siamo scappati, ci hanno fatto scendere i pompieri. Io abitavo al primo piano ma non potevo scendere la scala: si è staccata la porta di ingresso del mio vicino di casa, ha staccato anche la mia che è finita nella mia camera da letto come un proiettile. Mezzo palazzo è andato giù. Quella sera sono andata dall’altro mio figlio e poi abbiamo saputo che ci hanno messo a disposizione i b&b e siamo venuti. Quella sera siamo riusciti a prendere solo ciò che avevamo a portata di mano: scarpe e qualche vestito”.
“Il giorno dopo è stato intanto un incubo, come se la cosa non fosse successa a me, ma fosse un sogno… Che poi ero disorientata, non ricordavo niente, ancora adesso tendo a scordare le cose”. Avete avuto modo di essere assistiti da un medico subito dopo quello che è successo? “Subito no. Sono andata dal mio medico curante, poi ci hanno mandato al pronto soccorso che c’era un macello che non ti dico. Sono andata da uno psicologo a pagamento, anche una psichiatra dopo. Poi abbiamo prenotato al Garibaldi, ma sa con quale probabilità? Che io magari vado dal neurologo, oggi trovo lei, la prossima volta dopo due mesi, ne troverei un altro. Questa per me non è una cura, perché ognuno ha il suo metodo”.
Dopo il crollo avete parlato con qualcuno del Comune, dei servizi sociali? “No, mai”. Come avete affrontato questa situazione? “Siamo andati avanti attraverso gli avvocati. La proprietaria del b&b ci dice di settimana in settimana quando scade e se viene rinnovato. Signora, restate fino a domenica oppure Signora, l’hanno prolungato. Così, a singhiozzi. I nostri avvocati ci dicono di stare attenti perché tutto quello che si dovrà fare, sarà tutto a spese nostre. Io per esempio volevo affittarmi una casa e mi hanno detto Avete bisogno di soldi per pagare quello che non avete, non fate delle spese inutili. La messa in sicurezza, se il palazzo dovrà essere demolito oppure ricostruito dovremo farle noi queste cose. Il Comune non se ne fa carico. Secondo me non è giusto”.
La stanza del b&b la signora Francesca la tiene ordinata e pulita. Sul pavimento c’è un quadro di Sant’Agata che le hanno regalato proprio a febbraio e che non può appendere. Davanti al finestrone, una sedia con un sacchetto appoggiato vicino: la signora Francesca si siede lì, anche di mattina presto quando non riesce a dormire, e fa i suoi lavori a maglia, per non pensare. “In questo b&b siamo quattro famiglie. Uno è venuto solo qualche tempo perché era un affittuario, come l’altra famiglia con la bambina che ha perso l’udito durante l’esplosione. Non c’è molto da discutere, molto da dire. Ci voleva di parlare col sindaco, ma il sindaco non ci riceve, completamente. Io non pretendo una casa, ma almeno farsi carico delle spese per togliere le macerie, la messa in sicurezza. La via Francesco Crispi se la vedi ora è morta: il supermercato ha chiuso. Prima era una strada in fermento, passava l’autobus, trafficata, affollatissima. Se la vedi adesso non passa più nessuno, è deserta. Sembra una strada di periferia”.
Cosa le manca di più della sua casa? “Tutto, completamente tutto” la signora Francesca abbassa gli occhi e pare che la rivede, la sua casa “Ho abitato lì per ventun anni, una casa fatta con i sacrifici, mi sono cresciuta quattro bambini nella rivendita alimentare che ho avuto in zona per molto tempo. La casa in via Crispi l’ho acquistata nel 1995 con un mutuo, quando mio marito è andato in pensione. Ma quando non ce la facevamo, ci aiutavano i figli firmando le cambiali. Quando ci siamo andati a vivere era vecchia, ma abbiamo fatto solo la pittura ai muri, perché non potevamo permetterci altre spese. Le abbiamo fatte piano piano, quando potevamo: il bagno l’ho fatto in due volte, prima il pavimento, poi le pareti. Mi è costato di più e magari non è venuto perfetto, ma così a mozziconi potevamo farlo. Però tutto in regola. E alla fine cosa mi è rimasto? Le mani vuote”.
“Nel ’92 dopo il terremoto di Santa Lucia, ricevemmo una detrazione dell’Irpef dal 10% al 4%. Tutto tranquillo, io avevo pagato. Poi dopo tanti anni, quando avevo già chiuso l’attività, la legge ha preteso che noi pagassimo quel 6% che ci era stato detratto. Io come facevo a saperlo? L’avevano pubblicato sulla Gazzetta, detto in tv, io non avevo più all’epoca un commercialista… Per farla breve sto pagando a rate quel conto di allora, con tutti gli interessi, che doveva essere un’agevolazione per le zone colpite dal terremoto. Guarda i bollettini” e mostra le rate da versare all’Agenzia delle entrate: trecentotredici, trecento, trecento, centonovantasei euro “Un po’ di rate già le abbiamo pagate ma ancora dobbiamo pagarne. Vedi cosa mi fa rabbia? Io ho sempre pagato le tasse, sono stata sempre puntigliosa e ora che ho bisogno io dello Stato, non vengo nemmeno considerata”.
Alessio Ossino e la sua rabbia
Qualche giorno fa, la signora Francesca e il figlio Nuccio, hanno ricevuto la solidarietà del cantante neomelodico Alessio Ossino. Alessio ha trentadue anni, è conosciuto negli ambienti musicali catanesi e non, e anche lui è stato sfrattato. Il 4 maggio di quest’anno ha minacciato di lanciarsi dal balcone del b&b in cui è ospite insieme alla compagna.
Mentre era sul tetto del b&b, gli addetti ai servizi sociali gli avevano promesso, ancora una volta, che avrebbe avuto finalmente una casa. Alessio Ossino però ci aveva rinunciato per cederla a Veronica che ha dei bambini e ne attende un altro. “Ne hanno più bisogno visto che ci sono i bambini. Per questo gliel’ho ceduta, ma alla fine è stata una presa in giro, ancora una volta, perché non le hanno dato una casa come avevano detto ma un altro b&b!” dice Alessio molto infuriato.
“Viviamo in una situazione insostenibile a Catania oggi” prosegue Alessio “Ci sono questi signori che governano che sono indifferenti. Chi si mette a capo di una situazione, dovrebbe almeno saperla gestire. Invece non è così. È assurdo vedere durante la notte tante persone, tanti giovani, anche di diciotto o vent’anni, che si ritrovano a vivere per strada o dormono negli ospedali. Tutto questo è una vergogna, perché queste persone andrebbero aiutate, dandogli una casa o mettendogli a disposizione delle case famiglia. Io faccio il cantante nella vita, ma non si può vivere facendo il cantante. Quando posso, nel mio piccolo, do una mano a queste persone. Offrendo un caffè, o qualche sigaretta, quando in passato ho avuto la possibilità anche un panino. Ma questo lo faccio da me, perché so cosa significa stare così. Però mi rendo conto che la situazione va ad aggravarsi, giorno dopo giorno. Non ci sono solo giovani per strada, ma intere famiglie, con bambini. Sapere che bambini sono costretti a vivere così è la vergogna dell’Italia, questi signori dovrebbero finirla. O si mettono in testa di governare o ci levano mano”.
“Avevamo una casa di proprietà, poi la banca se l’è tirata, non si è capito ancora bene come abbia fatto, c’è la denuncia in corso. Dopo siamo andati a vivere in una casa in centro, avevamo un contratto ma a un certo punto non abbiamo potuto pagare più. Quando mi hanno sfrattato ho pensato subito che non è giusto che una persona, non come me ma come tante dormano in mezzo alla strada. Sono andato subito ai servizi sociali e ho fatto un casino enorme. È arrivata la polizia, l’ambulanza, altre persone. E solo dopo tutto questo mi hanno assegnato un b&b dove dormire”. La compagna di Alessio però non era stata calcolata come ospite “perché non avevamo la carta di convivenza. Come possiamo avercela? Visto che non abbiamo la residenza da nessuna parte?”, quindi hanno dovuto sbattere i pugni anche per questo. E alla fine stanno accomodando così.
E i b&b come stanno funzionando? “Lo rinnovano settimanalmente, ma ogni settimana ci ricordano che sta per scadere e che non potrà andare avanti così. Per farci avere paura. I servizi sociali chiamano il proprietario del b&b e gli ricordano che sta per scadere, così, sempre. Ci sono persone che hanno problemi seri, anche di salute, e dormono per strada. Ma il sindaco dov’è finito? L’ho preso faccia a faccia tempo fa e ci dissi comu finiu?. E lui Cercherò di fare di tutto. E ancora aspetto a lui”.
“Al b&b non ci danno lenzuola né tovaglie. Lavo tutto a mano, ma quando non si possono pulire bene siamo costretti a buttare tutto. Quando hai un appartamento tutti ti vogliono bene, quando rimani in mezzo a una strada non ti conosce nessuno. Ti dicono Se avete bisogno noi ci siamo, e poi non c’è mai nessuno” dice la compagna di Alessio, Emanuela. Ha gli occhi e i capelli neri, un corpo statuario. Sulle braccia i segni dei tatuaggi, negli occhi quelli della vita.
Cinzia scola la pasta nel bagno
“Noi praticamente abitavamo a Librino, in viale Castagnola, poi siamo tornati a casa, era per la scampagnata. La sera il tempo che siamo entrati, abbiamo avuto solo il tempo di entrare, ed è caduto tutto il tetto: prima fuori e poi dentro. Le nostre cose sono rimaste tutte là dentro. Era un palazzo di tredici piani, ma noi abitavamo al pianterreno. Abbiamo chiamato i vigili del fuoco, prima ci hanno detto che toglievano il pericolo e potevamo entrare. Poi invece vedendo che era crollata anche la struttura in ferro del tetto, ci hanno detto che era inagibile e ci hanno portato a dormire alla Collegiata per tre giorni. Poi da là ci hanno portato qua ed è tre mesi che siamo qua senza nessuna risposta. Ci dicono che da qui prima o poi ce ne dobbiamo andare, ma come ci buttano fuori? Dove ce ne andiamo? È un nostro diritto avere una casa”.
Da quando il tetto della casa a Librino ha ceduto, Cinzia e suo marito insieme ai loro bambini vivono in una stanza di pochi metri quadrati in un b&b a San Cristoforo che è stato assegnato dai servizi sociali. Buste sparse ovunque, due letti a castello dove dormono i bambini più grandi ma dove appoggiare anche vestiti, pannolini, e la roba essenziale per vivere. Il più piccolino invece un lettino non ce l’ha e mamma Cinzia glielo inventa piegando piumoni morbidi su cui adagiarlo.
“Io lavoro in nero” dice il marito di Cinzia “certe volte compro una cassa di frutta per rivenderla e darici da mangiare ai picciriddi. Raccolgo anche il ferro o qualsiasi cosa. Anche se porto solo dieci euro a casa meglio di niente. Noi spendiamo venticinque euro ogni due giorni per comprare il latte al bambino. Ci avevano fatto fare la domandina per aiutarci per il latte ma ci hanno preso solo in giro, non mi hanno dato nessuna risposta neanche per questo”.
Cinzia continua “Ci dicono che noi ci dobbiamo cercare una casa e che loro ci aiutano a pagarla. Ma quando io chiamo qualcuno, appena dico che me la paga il Comune, rispondono no, signora non gliela possiamo affittare. Ci chiudono il telefono in faccia. Poi con il fatto che chiedono la caparra, non è facile perché mio marito non guadagna tutti i giorni. A volte porta dieci euro, a volte venti, a volte niente”. Cinzia ha ventiquattro anni, suo marito trentacinque. Hanno tre bambini: uno di otto anni, uno di due e l’ultimo di dieci mesi.
“Avevamo trovato una casa qua vicino” continua il marito “Se il Comune mi paga un mese di caparra e la mensilità corrente posso aspettarvi anche quindici giorni ci aveva detto il proprietario. Ha chiamato il Comune Sì, va bene ora facciamo il mandato. Il proprietario ci ha aspettati ma il Comune non ha mandato soldi né niente. Poi dopo due giorni sono andato ai servizi sociali e gliel’ho detto. Loro Non può essere! Come non può essere? Quel signore ci aveva aspettato quindici giorni, non è che può aspettare il Comune! E infatti quella casa l’abbiamo persa. Siamo soli. Una volta ai servizi sociali mi hanno detto Casomai a sua moglie e ai bambini li mandiamo in una casa famiglia. Appena hanno visto che non ero d’accordo mi hanno detto E allora visto che la pensate così facciamo intervenire l’assistente sociale per i bambini”.
“Se tu non vai in casa famiglia subentra il Tribunale e si prende i bambini così mi hanno detto” conferma Cinzia “io mi chiedo se capitasse a loro quello che è successo a noi, ci starebbero in un b&b o in una casa famiglia? Loro pare che ti aiutano ma poi invece non è così. Io ho paura per i bambini. Una ci va per essere aiutata e loro mi dicono di mettere i bambini in comunità?”.
Quando sono rimasti senza casa i bambini hanno perso una settimana di scuola, poi Cinzia ha affrontato ogni giorno traversate in autobus per accompagnarli sino al Villaggio Sant’Agata. Il marito non ha un’auto, e qualcuno ai servizi sociali si stupisce Lei come ci va a lavorare senza un mezzo?, e il marito “Se non me lo posso comprare, lei che pensa, che mi compro il mezzo invece di portare il mangiare ai miei figli? Io mi arrangio, anche a piedi. Lei ce l’ha una casa? Facciamo cambio: venga lei al posto nostro! ho detto loro”.
“Nel b&b di prima avevamo il bagno in comune: non era igienico lavarci i bambini, specialmente che li mettevo nel piatto doccia. Ora abbiamo il nostro bagno ma è fuori dalla camera, ci scoliamo anche la pasta. In camera non abbiamo una cucina, né un frigo. Persino l’acqua la beviamo calda. La mettiamo qua vicino al condizionatore per farla raffreddare.
E per cucinare abbiamo comprato un fornello. Vogliamo una sistemazione: non possiamo stare in una stanza con tre bambini, senza spazi per giocare, senza niente. L’unico mio pensiero fisso di tutti i giorni, sono i miei figli” conclude Cinzia “I miei figli devono avere una sistemazione”.
Ezio sulle panchine
“Da sette anni dormo sulle panchine fredde o nei dormitori. Sono stato anche in carcere. Fanno pranzi che offre la Caritas o le associazioni di volontariato. Ma io mi chiedo: un servizio anche per quelli che dormono fuori la sera perché non lo fanno pure? Io abitavo in un paesino sull’Etna, con i miei, poi quando sono stato dentro non mi hanno fatto rientrare a casa. E quindi sono rimasto in giro, così. Non è sempre giusto occupare i posti all’ospedale per dormire, lo vedi? È sbagliato. A volte vengono le volanti e ci dicono vi n’ata gghiri fora. Noi italiani ce l’abbiamo un insegnamento almeno, con gli stranieri è diverso. Io non sono razzista ma dove mi ci lavo i piedi non mi ci lavo la faccia, per dire. Non si può convivere con loro”. Alcuni dormono fuori, sotto gli alberi, all’ospedale Garibaldi vecchio. Altri anche nelle scale, altri ancora si infilano nel pronto soccorso.
“Mi avevano offerto un lavoro come custode a Viagrande, solo il sabato e la domenica. Ma come ci vado sino a lì? Non avrei dove stare nemmeno lì”. Ezio racconta che è stato ricoverato in psichiatria per un attacco che gli è preso anni addietro. “Aspettavo che mi ricoverassero in comunità, almeno stavo lì”. Non l’hanno mai chiamato.
Antonella e Giuseppe per strada
“Io è da qualche settimana che vivo così, non è facile affrontare giorno per giorno questa situazione. Abbiamo avuto problemi a casa e siamo andati via. Le nostre poche cose le lasciamo ovunque, dove capita, da amici, in giro. Mia figlia per fortuna se la passa bene perché sta coi nonni”. Antonella ha venticinque anni e non lavora, ha una bambina piccola. Da qualche tempo lei con il suo Giuseppe sono per strada.
Poche buste, con poche cose. Ciabatte, vestiti, qualche tovaglia, un po’ di sapone. “A volte vado a lavarmi a pezzi nel Mc Donald, poi in questi giorni verso le nove di sera andiamo alla playa per fare una doccia. Prima andavamo al solarium ma lì era un problema farsi la doccia col bagnoschiuma perché si scivolava e quindi le persone si lamentavano. E perciò per ora ci arrangiamo così. I vestiti me li lavo sempre a mano, quando posso. Qualche volta li ho lavati nelle fontanelle che ci sono fuori. A volte siamo costretti a buttare magliette o tovaglie perché non possiamo lavarle più. Le tovaglie del bagno non è facile pulirle a mano, ma meglio che restare sporche del tutto. Noi non abbiamo il b&b, dormiamo fuori all’ospedale la sera”.
“Io abitavo a Librino, ho 29 anni. Frequentando i quartieri e visto che lavoro non ce n’è, ho fatto uno sbaglio, sono stato arrestato, però ho pagato il mio debito con la giustizia. La prima volta sono rimasto dentro tre e anni e mezzo, anche la seconda volta. In totale sette anni dietro le sbarre. Ora sono uscito da tre mesi e sono in cerca di un lavoro. Non è facile. La mattina ci alziamo presto, andiamo nei bagni dell’ospedale e ci sciacquiamo la faccia. Dopodiché stiamo in giro cercando qualche lavoretto. A pulire, a scaricare merce, qualsiasi cosa” dice Giuseppe.
Ancora più ai margini: Caterina e la sua famiglia
Anche Caterina viveva in un quartiere popolare, anzi a dire il vero ha dovuto cambiare casa diverse volte. Non si è mai voluta allontanare dall’Antico Corso, dai Cappuccini, dal Fortino, da San Cristoforo perché “qui mi sento a casa”. Due anni fa Caterina e la sua famiglia sono stati sfrattati da una casa in cui non avevano un contratto e nell’urgenza di trovare un tetto hanno accettato un’altra casa senza contratto, sempre in zona. Anche loro a un certo punto non ce l’hanno fatta più a pagare “Mio marito lavora a giornate quando càpitano, io cerco di fare le pulizie ma non è sempre. Abbiamo due figli, di sette e sedici anni. Il più grande si arrangia come può, a volte anche raccogliendo roba dai cassonetti. Cose vecchie da rivendere. Tutti e quattro abbiamo problemi di salute: io soffro di depressione da più di dieci anni, mio marito ha avuto un infarto da poco, e ai miei figli sono state diagnosticate delle disabilità, dei disturbi, non abbiamo capito ancora bene cosa”. Nella casa che stanno per abbandonare non ci sono porte interne a separare le stanze, sui muri della camera dei ragazzi c’è il poster di qualche calciatore e scritte colorate a mano. Poi è spoglia: senza giocattoli, senza computer, senza cuscini. Solo un letto. Nessun mobile. “Il contratto veramente avevano detto che ce lo facevano, lo abbiamo pure pagato. Trecento euro gli abbiamo dato. Ma poi qualche mese dopo il proprietario ha negato di averli ricevuti. Cosa potevamo fare? Non avevamo niente di scritto. Dopo dodici mesi che non pagavamo, ci ha buttati fuori. È uno che conta, quindi c’era poco da fare storie. Anzi per certi versi ci ha pure ‘aiutati’ abbastanza…”.
Ricapitolando: il Comune di Catania dà il bonus casa a chi affitta una casa con regolare contratto. Bonus di duecentocinquanta euro. I prezzi medi per un monovano a Catania si aggirano sulle trecento euro. Una famiglia non può abitare in un monovano. Una famiglia che rimane per strada in genere è perché non ha un lavoro. Nessun reddito. I proprietari delle case per affittarle chiedono la busta paga o il libretto della pensione. Una garanzia.
Anche questa volta Caterina, suo marito e i loro figli hanno dovuto ripiegare sulla prima soluzione che si è presentata. Di opzioni non ce n’erano altre. La strada. Oppure andare a vivere in un rudere in campagna, nella periferia più estrema. Ma anche questa volta nessun contratto, nessuna garanzia. Niente.