Frutti di mare
“Dinnanzi a noi c’era soltanto il mare, e cinque metri più in basso, la carcassa di un veliero affondato in mezzo alle alghe…”
Pomeriggio di quel giorno di mezzo novembre. Ora non ricordo se fosse Pozzallo o Scoglitti, oppure Marina di Ragusa o Samperi, quel pomeriggio era così vasto, così splendente che tutti i luoghi di quella straordinaria riviera sembravano racchiusi come nel cavo di una mano dalla identica luminosità, i medesimi incredibili colori autunnali, il giallo della rena, il verde argento delle colline, il bianco del cielo, il medesimo vento tenue, con l’odore delle alghe.
Davvero non so quale fosse quel luogo, e quale l’ora, il sole sembrava immobile da ore, sempre nel punto più alto del cielo.
L’acqua del porto era verde e immobile, un veliero vi avanzava lentamente in mezzo e pareva lo lacerasse in due, trascinandosi due lembi lunghissimi e morbidi come la seta, Il fotografo fece un piccolo cenno malinconico indicando una bettola quasi dirimpetto al mare.
Stava proponendo di mangiare. Il mio fotografo è basso, tarchiato, con la testa rapata, gli occhiali scuri, due grandi orecchi e una piccola bocca di pesce. Questa inchiesta lo sta esaltando, ci si sente dentro da protagonista, viaggiando in macchina parla ininterrottamente di mangiare, non ho conosciuto un uomo capace di parlarne con tanta amorevole serietà, attenzione e scienza. Come taluni uomini normali ricordano alcuni giorni memorabili della loro vita, oppure occasioni strane, o tragedie familiari, e persino eventi storici, al suono nostalgico di una musica o motivo di canzonetta (io sento “Ma l’amore no!” e subito ricordo la polvere dei bombardamenti aerei) così egli è capace di rievocare la sua vita, la prima donna che conobbe, il matrimonio, la morte di sua nonna, al semplice annusare di un odore di cibo, un fumo, uno spiraglio di arrosto, un sentore di pizza, un alito estivo di fichi maturi. Così viaggiando, fumando, ridendo, odorando, mi ha raccontato quasi tutta la sua vita.
Ordunque, in quel piccolo porto del mare d’Africa, mi propose di mangiare. Scegliemmo proprio quell’osteria dirimpetto al mare, con i tavoli sul marciapiede, il pergolato sulla testa.
Dinnanzi a noi c’era soltanto il mare, e cinque metri più in basso, la carcassa di un veliero affondato in mezzo alle alghe. Ogni tanto su vecchie biciclette passavano adagio vecchissimi marinai vestiti di blu. Padrona era una donna grassa, rubizza, con un grembiule rosso e bianco, una faccia contenta, la risata un po’ sguaiata, due bande di capelli grigi, aveva una dentatura da pescecane ma le mancava un dente in mezzo alla bocca e, parlando e ridendo, faceva sempre un flebile fischio.
Subito fra questa donna e il mio amico fotografo si stabilì un’intesa quasi spirituale. Trattando il cibo da portare a tavola non si parlarono nemmeno, si guardavano soltanto, facevano piccoli gesti, una specie di transfert, come accade misteriosamente a due cani che non si conoscono e per qualche minuto si identificano odorandosi, solo che qui non si trattava di eros ma di buon mangiare. Capirono subito di essere della stessa razza, si piacquero, in un certo senso si amarono.
Il fotografo guardava un tipo di pesce e la donna faceva un’impercettibile smorfia, il fotografo alzava un dito lievemente verso un altro pesce e la donna faceva un riso come un sospiro.