Finchè ci sarà un giornalista a vivere sotto scorta
Intervista a Paolo Borrometi direttore della testata online “la Spia”
Paolo vive oggi sotto scorta e lontano dalla Sicilia. La sua colpa? Scrivere di mafia.
Ciao direttore, di cosa ti stai occupando adesso?
Ben trovata, mi sto occupando di cronaca giudiziaria, scrivo per l’AGI e collaboro come editorialista con testate come “Il Tempo”, “Articolo 21”, “Ossigeno per l’informazione”. Sono contento perché è rinato il progetto di “Libera Informazione” e mi è stato chiesto di occuparmi di una rubrica e con orgoglio ho accettato.
Cosa pensi del giornalismo di oggi?
Oggi il giornalista, più che in altri momenti storici, deve essere spinto da una passione talmente forte da permettergli di rifiutare compromessi lavorativi di qualsiasi tipo. Altrimenti il suo diventa un banale lavoro d’ufficio, gestibile dal proprio capoufficio e sottoposto a regole che lo privano della sua essenza: la libertà di pensiero e di espressione.
Noi ci siamo conosciuti quando avevi appena ricevuto la minaccia incisa sulla tua auto, e subito dopo le percosse, ma non ti sei fermato.
Io provengo da una famiglia di avvocati e tutti speravano che proseguissi su quelle orme. Io però fin da piccolo avevo un mito, Giovanni Spampinato. Era un ragazzo di venticinque anni quando fu raggiunto da sei proiettili dentro la sua Cinquecento quella notte di ottobre del ’72. Giovanni era cosciente della bellezza del territorio in cui viveva ma anche delle tante zone d’ombra. Cadde per mano del figlio del presidente del tribunale di Ragusa di allora. Era stato l’unico giornalista a documentare le attività e i rapporti delle organizzazioni locali di estrema destra con la criminalità organizzata. Lui scriveva proprio di tutto ciò di cui Ragusa non voleva sentire parlare.
Dopo Giovanni Spampinato la provincia di Ragusa ha dovuto aspettare Paolo Borrometi?
“No, dopo Spampinato, la provincia di Ragusa venne finalmente raccontata proprio da “I Siciliani”. Fava scriveva di Ragusa come di una provincia usata come “lavatrice” per ripulire il denaro sporco. E soprattutto scrisse per la prima volta che i mafiosi c’erano e che se non si vedevano era solo perché non si volevano vedere. Io ho trovato una serie di documenti inediti che riscrivono la storia di Ragusa, che non è mai stata una provincia babba. Sono stati prefetti, questori, parlamentari ed altri che hanno portato avanti il mito della provincia babba, per lavarsi la coscienza e creare un humus fertile per certi affari. In questo contesto comincio a scrivere e comincio a ricevere minacce.
Di cosa scrivevi in quel periodo?
In quel periodo stavo facendo un’inchiesta giornalistica sulla privatizzazione del cimitero di Modica ed altre inchieste sulle case popolari, occupate sì da un altissimo numero di abusivi, ma il problema non erano loro quanto piuttosto chi assegnava le case e con quali modalità. Vi sono responsabilità che hanno nomi e cognomi, di quello parlavo in quel periodo.
Cosa accadde quella mattina?
Quella mattina quando trovai quella scritta sulla fiancata della mia station wagon, pensai ad uno scherzo di cattivo gusto. In quel periodo ero appena laureato e scrivevo per il “Giornale di Sicilia”, ma c’erano difficoltà e mi convinsero a passare a “La Sicilia”: questo è stato professionalmente un grosso sbaglio, per quella che è la storia di quel quotidiano e per il doppio ruolo pericoloso di Ciancio, direttore ed editore del giornale, un personaggio che rappresenta un vero centro di potere, con grandi influenze nella provincia di Ragusa. Da quel momento cominciano ad arrivarmi segnali che mi fanno capire come non sia aria e mi allontano dopo un breve periodo dalla Sicilia. Così il primo settembre del 2013 nasce il progetto della Spia. Da quel giorno sono sorti problemi.
Non rappresenti un pericolo però li fai arrabbiare…
Si arrabbiano perché, nei fatti, non sono abituati a sentir parlare di loro. Questa è una critica che faccio a noi giornalisti. Mi spiego: se il Ventura di turno a Vittoria si arrabbia con un determinato giornalista, tutti gli altri dovrebbero riprendere il discorso e fare da scudo umano. Ma in due o tre persone non si risolve nulla, anzi si finisce con il diventare obiettivi. Invece basterebbe essere una moltitudine e si diventerebbe scudi umani.
Quando scrissi la prima volta per il tuo giornale, mi chiamò un conoscente dicendomi di stare attenta a scrivere per la Spia. Mi disse che il tuo poteva essere un attentato finto o comunque derivato da storie di corna.
Io venni aggredito il 16 aprile del 2014, venni ridotto davvero male, da allora mi porto addosso conseguenze fisiche permanenti. Subito i bravi giudici dell'”Io so tutto” parlarono di un attentato inventato, ma dovettero arrendersi di fronte al fatto che io avevo sporto denunce circostanziate e correlate da referti medici e specialistici, con tanto di verbale di pronto soccorso. Ricordi Pippo Fava? Il giorno dopo la sua uccisione, i giornali titolarono “Ucciso il giornalista Fava: delitto passionale”. Purtroppo in Sicilia, qualunque cosa accada, la si butta subito a mignotte. Proprio in quei giorni sono andato avanti a pubblicare le mie inchieste sull’allora sindaco Susino e sul suo ruolo nella vicenda mafiosa di Scicli e sono piovute minacce di denunce e querele. Solo tre giorni dopo al sindaco è stato consegnato un avviso di garanzia per mafia!
Dunque, per dirla alla Pippo Fava: la mafia nella provincia di Ragusa c’è.
Io penso che la provincia di Ragusa abbia rappresentato e rappresenti un centro di interessi e di investimenti di mafie molto diffuse ed ampie. Nel suo territorio si muovono la stidda, Cosa nostra palermitana e catanese e in parte quella nissena, la ‘ndrangheta e i Casalesi, entrati grazie ai trasporti dei quali detengono il monopolio e che continuano a fare affari all’interno del mercato di Vittoria. La mafia c’è e per dimostrare ciò tanti colleghi sono morti e tanti altri cercano di fare questo lavoro con una voglia di libertà assoluta.
Come vive Paolo Borrometi lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia?
Io sono sotto scorta da più di un anno e mezzo, penso sia una “non vita” ma cerco di vivere al meglio pur nelle immense ristrettezze che si possono avere. Sono convinto che finché nel nostro paese ci sarà un solo giornalista costretto a vivere sotto scorta, uno solo e qualunque nome abbia, questo non sarà un paese libero.