venerdì, Novembre 22, 2024
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Fatta morire dalla sua famiglia perché aveva scelto la libertà

Per un primo periodo alloggerà nel cosentino, ma qualcuno potrebbe riconoscerla: viene trasferita dall’altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli che non ha potuto portare con sé.

Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare». Non è solo la distanza, ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro.

Cede e telefona alla madre. Lo confesserà alla scorta che la trasferisce a Genova. «Da Genova io ho richiamato di nuovo mia madre dicendo che la voglio vedere perché a me mi mancava». La famiglia di Maria Concetta arriva fino in Liguria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabinieri, che la riportano a Genova. Ma probabilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiama la madre per l’ultima volta: «Portami a casa». A Genova arrivano in tre: il fratello, una delle figlie e la madre.

E’ il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anche io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registrazione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno».

Le dichiarazioni rese alla magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. La ‘ndragheta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuole essere lasciata in pace.

Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’acido muriatico. Muore in ospedale.

Viene aperta un’inchiesta per “istigazione al suicidio”. Laura Garavini del Pd solleva anche un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a conoscenza? Dal Governo nessuna risposta.

Pochi giorni dopo il suicidio, la famiglia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di frequentazione criminale con Gregorio Bellocco».

Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la famiglia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la donna a suicidarsi “attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica”. Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda, lo stesso 9 febbraio, con l’operazione Califfo vengono messe in manette undici persone, probabilmente legate alla cosca Pesce.

Ha vinto lo Stato? Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri.

È perdonabile la distrazione di uno Stato che affida i figli di una testimone di giustizia alla stessa famiglia da cui questa sta scappando? Maria Concetta è tornata da loro per proteggerli, poco dopo sceglie di far vedere il proprio cadavere a quegli stessi occhi per cui è tornata indietro. Questa volta quei tre ragazzini, la cui intera famiglia è in carcere, a chi verranno affidati?

 

SCHEDA

OPERAZIONE CALIFFO

Pochi giorni fa un’operazione denominata Califfo, coordinata dalla procura di Palmi e dalla Dda di Reggio Calabria ha dato una un duro colpo alla cosca Pesce, fra le più rilevanti nella cittadina di Rosarno. È stato fermato il latitante Giuseppe Pesce, diventato boss dopo l’arresto del fratello Francesco. Insieme a lui sono finiti in manette altri dieci presunti affiliati. Fondamentale, per il nucleo del Ros, un “pizzino” che Francesco Pesce aveva vanamente cercato di far arrivare al fratello dal carcere. Il foglietto conteneva una serie di indicazioni che insieme alle dichiarazioni di Maria Concetta Cacciola e di Giuseppina Pesce, altra testimone di giustizia, hanno permesso la ricostruzione del puzzle. Le dichiarazioni delle due donne erano apparse convergenti – seppur fatte in archi temporali differenti – sul ruolo svolto da Saverio Marafioti: il cosiddetto “muratore”, che costruiva bunker a prova di bomba, dotati di ogni comfort. Marafioti sceglieva luoghi inaccessibili e isolati per edificare le tane della ‘ndrangheta.

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