Essere differenti: se non ora, quando?
Abbiamo passato questi ultimi anni a sentirci ripetere quanto la Lombardia fosse la regione pioniera di un nuovo modello di imprenditoria illuminata e severità sociale. Abbiamo ascoltato il partito degli imprenditori (con il berlusconismo che qui in Lombardia è stato progettato, impastato e confezionato pronto per essere venduto) e gli autonomisti (con la Lega e tutte le sue ultime leghe interne) sventolare la retorica dell’eccellenza lombarda come stella polare di una politica liberale, simpatica come una trasmissione in prima serata e vincente, dedicata a tutti vincenti.
Non so quanto coraggio abbiamo avuto, noi, mentre andava in scena tutto questo. Non so se forse non ci siamo perduti nei banali (e peraltro falliti) inseguimenti sui temi del centrodestra per provare a dimostrarci all’altezza, se qualcuno non abbia pensato che fosse una buona cosa imparare bene ad essere dei buoni perdenti e passare all’incasso o se semplicemente mancasse lo slancio e la fantasia.
Certo non abbiamo osato. Certo in Lombardia, e non solo in Lombardia, abbiamo passato più tempo al tavolo della matematica, inseguendo la formula del cinquantuno per cento senza tenere aperta la finestra al paese che scorreva: segreterie di partito, riunioni di coalizione a cercare la matematica con un Paese che intanto privatizzava i diritti, liberalizzava i doveri, ha impacchettato i servizi in confezioni da dieci pezzi pubblicizzati con il sorriso del Governatore di turno. In vent’anni di Governo spericolato con i ricchi e sempre timido con gli altri, in Lombardia, ci hanno già raccontato la favola triste della liberalizzazione salvifica, della finanza come unica cura dell’economia e della ricchezza come valore e la povertà come costo.
Ricchezza come ‘valore’: le parole di Monti hanno lo stesso spaventoso retrogusto di un sistema che è già in atto, giù al nord, nella sanità di prima e seconda classe, nel lavoro diviso (e non più condiviso) tra gli acquirenti bulimici e chi può solo elemosinare di essere ancora spendibile, tra la politica che è l’ancella spudorata di un’imprenditoria sempre meno etica e le mediazioni sociali che sono solo trattative d’affari.
Per questo credo che la Lombardia sia lo spettro che già c’è del nostro quadro nazionale; il vaccino da cui partire per ricominciare ad osare, per prendersi la responsabilità di tenere la barra dritta senza inseguire strani matrimoni, senza scorciatoie, per dire forte senza remore e senza impauriti moderatismi che abbiamo già visto la liberalizzazione che fissa il prezzo ai diritti e che non ha niente a che vedere con la liberalizzazione che sta nel ‘rendere liberi tutti di accedere ai servizi’: l’unica liberalizzazione che potrebbe essere accettabile.
Noi non possiamo stare nei toni di grigi. Non possiamo accettare di collaborare con chi sta in mezzo non per virtù ma per speculazione. Non possiamo blandire questa moda del dichiararsi oltre le ideologie per non garantire l’omertà di posizioni. Noi stiamo a sinistra. Della sinistra che sta nell’idea che preserva il suolo, l’ambiente, l’acqua e l’aria come bene comune. Che crede nell’impegno dell’uguaglianza: uguaglianza di possibilità, uguaglianza sociale e uguaglianza nei diritti e nei doveri. Della sinistra che trova inaccettabile questo paese come laboratorio del totalitarismo moderno. Che crede nel valore della laicità e vigila sulla libera professione delle fedi, che coltiva la ricchezza delle differenze, che pretende dignità nel lavoro, che crede nelle leggi come opportunità di convivenza e di tutela, che condanna lo sfruttamento e il mercimonio e che ha una storia di persone e di valori, che si spende sulle infrastrutture sociali come uniche urgenti grandi opere. Così, tanto per chiarire.
Perché non esistono modi banali per potersi mettere insieme. Perché questa crisi è una recessione sociale e culturale, e solo dopo economica. Perché non è credibile e non ci appartiene questo gioco banale e vuoto di infilare nel cassetto della post-ideologia qualsiasi operazione di costruzione di un pensiero comune, di una forma collettiva di azione e di pensiero che, se infastidisce chiamarla ideale o ideologia, a noi basta chiamarla idea. Perché la trasparenza, la partecipazione, l’etica e la legalità sono le sentinelle di un indirizzo sociale e politico che non possono da sole bastarci come contenuto. Il momento storico del nostro Paese (e della desolante credibilità del nostro Paese nel mondo) chiama una generazione alla responsabilità di sostituire i modi (e le persone) del fallimento ma soprattutto alla responsabilità di costruire un nuovo modello. Di raccontare un’altra direzione e declinarla ognuno nel proprio campo.
Non accettiamo di aspettare che il terremoto dia a noi l’occasione da usare. Vogliamo costruire la prospettiva da osare. Insieme.
Confiscare la bellezza. Presidiare con fenomeni di stampo antimafioso. Non occuparsi di infiltrazioni ma delle convergenze.
In un tempo di corruzione, mafie, riciclaggio e mala politica con lo stesso spirito ispiratore, in un momento di emergenza morale oltre che economica scegliere da che parte stare è un obbligo. L’indifferenza, il compromesso e l’ossessione della mediazione sono solo un diverso grado di collusione: allora rivendichiamo con forza da che parte stare. Essere di parte com’è nel senso della storia e delle parole: essere partigiani.
Perché è il nostro modo, il nostro obbiettivo e perché come dice l’articolo 4 della Costituzione ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. La Costituzione ci dice che essere indifferenti è incostituzionale: questo è il nostro tempo di essere differenti.