Effetto Karoshi
In metro, al mattino, la metà dei passeggeri dorme: gli occhi a mandorla si socchiudono per poi riaprirsi al suono dell’altoparlante che nomina la fermata, ed ecco che in un battito di ciglia li vedi sfrecciare verso l’uscita. Quasi tutti in giacca e cravatta, domenica compresa. Gli uomini indossano per lo più completi grigi o blu, rigorosamente con cravatta. La maggior parte delle donne porta i capelli raccolti e contro voglia, i tacchi.
Le giapponesi si sono ribellate al dettame delle scarpe alte sul lavoro, qualche mese fa si sono organizzate e hanno creato una campagna che si chiama “Kutoo”. Il nome nasce dall’incrocio fra la parola “kutsu” cioè scarpe in giapponese e “kutsuu” che vuol dire dolore.
A nove ore d’aereo da Roma, a Tokyo, ogni giorno, due milioni di persone attraversano l’incrocio di Shibuya, uno dei quartieri più affollati del mondo. Ogni singolo edochiano in quel momento sta pensando al proprio lavoro: devo essere efficiente; devo essere sempre cordiale, non posso mai tenere il broncio; devo inchinarmi per salutare il mio capo anche se ho mal di schiena; devo rispettare gli orari di lavoro, non posso discutere se torno a casa a mezzanotte.
Il lavoro in Giappone è valutato secondo la quantità e non secondo la qualità. Le promozioni non dipendono dai meriti, ma dall’età e dagli anni di servizio. In media si lavora dodici ore al giorno, di solito tutte di seguito. Un mare di sacrificio e di conformismo. La morte per troppo lavoro in Giappone ha un nome preciso: “karoshi”.
Di karoshi è morta – un esempio fra i tanti – anche Matsuri Takahashi, una ragazza di ventiquattro anni che lavorava in una società di pubblicità e pubbliche relazioni, la Dentsu. Si suicidò buttandosi dal tetto di un dormitorio per lavoratori. Dopo la sua morte, le indagini – per una volta accurate – portarono a galla le cento ore di straordinari al mese alle quali era stata sottoposta.
Gli italiani – tornando a noi – non sono giapponesi, ma le trentatrè ore settimanali le raggiungono lo stesso; gli straordinari non vengono conteggiati nello stipendio finale, soprattutto se si tratta di lavoratori giovani che non osano farsi sfuggire il posto. Riders e camerieri lavorano comunemente in nero e quindi sono più giapponesi degli altri. La morte per karoshi in Italia non è ancora molto diffusa.