“E vorrebbero anche sfuggire alla fame”
Tunisi/ Testimonianze
Il tanto agognato giorno dell’anniversario della rivoluzione tunisina, il 14 gennaio, che un anno fa guardavo su al-Jazeera con le lacrime agli occhi, per me è stato abbastanza triste. Il colore dell’Islam è il verde. Ma le bandiere degli islamisti sono nere, prendono il posto di chi un anno fa ha fatto la rivoluzione, e sono numerosi rispetto agli altri gruppi nell’Avenue.
A Tunisi l’Avenue Bourghiba è in festa, ma come un luogo dispersivo con tanta gente, quasi un sabato di shopping in cui non si può camminare. La rivoluzione deve ancora venire, è il cammino lento verso la democrazia, che nessuno, al di là delle elezioni di ottobre, vede chiaramente. L’unico punto di calore festoso l’ho trovato per un attimo alla Bourse deTravail alla celebrazione del partito comunista. Come se il punto più emozionante e di unità fosse la questione palestinese, quando una delle sue splendide cantanti, Rim al-Banna, è venuta a omaggiare la rivoluzione tunisina.
Il giorno dopo, alla Kasbah, di fronte al Palazzo del Governo, nella capitale, ci sono le famiglie dei martiri e dei feriti della rivoluzione di Regueb, nel governatorato di Sidi Buzid. Sono pochi, come forse pochi sono a interessarsi alla loro causa nel nuovo governo.Protestano in sit-in permanente per chiedere un’accelerazione dei tempi per l’indennizzo alle famiglie delle vittime e dei feriti della rivoluzione. Ma pensano anche ad altro: chiedono che siano creati finalmente nella loro regione dei programmi di sviluppo.
Perché oltre che sfuggire al dolore vorrebbero anche sfuggire alla fame. Un po’ stanchi un po’ esasperati di fronte alle promesse dei governi che si sono succeduti da un anno a questa parte. L’avvocatessa Lamia Farhani, presidentessa dell’associazione delle famiglie dei martiri e dei feriti, pensa che ci siano tanti punti oscuri, non solo le attese degli indennizzi. Sono le vittime invisibili, senza stampelle, né il gesso, senza nessuna foto che le ricordi. Sono tutte le donne violentate dai poliziotti nei giorni della rivoluzione, che fanno ancora fatica a denunciare e a raccontare. Perfino le donne, fra di loro, si vergognano a raccontare. Eppure c’è chi sa, chi ha visto e ascoltato. E nessuna piazza ha le orecchie per farlo.
Ma nell’anno della rivoluzione tunisina non si poteva restare sordi ad altre voci. Così i dispersi tunisini, in mare o in paesi europei, si sono fatti sentire e vedere abbastanza affinché venisse creato un nuovo organo statale: un Segretariato di Stato all’Immigrazione e per i tunisini all’estero. Finora quel 10% di popolazione tunisina residente all’estero, più di un milione di persone, ha visto solo strategie poche chiare e senza coordinazione. Il contributo economico, così come il sostegno durante la rivoluzione tramite il web, forse si vedranno riconosciuti in un nuovo organo statale che cerca di far cooperare i diversi dipartimenti ministeriali.
HoucineJaziri, segretario del nuovo organo, presenta al quotidiano tunisino in lingua francese La presse la nuova politica sull’immigrazione. Nell’intervista vengono fuori dei punti fondamentali: gli harraga dispersi e i rifugiati libici. Il segretario dichiara che “il capo del governo ha chiesto di accelerare le negoziazioni con le autorità italiane per trovare delle soluzioni idonee, sia per i dispersi che per le persone in stato di arresto nelle prigioni italiane”; così forse Jaziri inconsapevolmente ma propriamente chiama i Centri di Identificazione ed Espulsione in Italia.
Ancora siamo lontani dal vedere i risultati, e quel che è peggio dal rivedere le persone. Prima che le famiglie possano sapere qualcosa dei loro figli dispersi, dovranno accontentarsi di un non trascurabile risultato: sono loro la società civile che si muove per le proprie cause, che si mobilita per essere ascoltata. Per chi giace negli abissi del mare e nelle ingiuste carceri questa parte di società civile non avrà mai prodotto “troppo rumore per nulla”.