È ancora difficile (o fin troppo facile) fare il giudice a Catania
Quindici anni. Tre lustri in cui a Catania è accaduto tutto e niente. La rivoluzione in Procura da una parte, con l’arrivo del forestiero Giovanni Salvi e, dall’altra, il monopolio di Ciancio, sempre lì intoccabile. I cavalieri dell’apocalisse sono andati via (chi all’estero, chi al creatore) ma si sa poco o niente dei nuovi. Si è circoscritto il potere del giovane vecchio Enzo Bianco e si è consolidato quello di Raffaele Lombardo (passando per le performance di Scapagnini), mentre ai piedi dell’Etna, a San Giovanni la Punta, si sviluppava indisturbato, il potere del clan Laudani: mafia, affari e contatti eccellenti. Ne ha parlato Titta Scidà nel suo “Capire il caso Catania” (dovrebbe leggersi nelle scuole).
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Correva l’anno 2000, quando Scidà fu chiamato in Commissione Antimafia e raccontò della potenza di Mario Ciancio e dei fatti di San Giovanni La Punta. Disse tra le altre cose: “Un magistrato della Procura ha comprato in quel comune una villa da un mafioso, o direttamente o per interposta persona”. E turbò non poco i commissari. Il magistrato è Giuseppe Gennaro, allora Presidente dell’Anm. Il mafioso è il costruttore Carmelo Rizzo. Successe il finimondo. Da Palazzo San Macuto le rivelazioni di Scidà finirono sulla stampa. Piovvero le querele contro i giornalisti ma nessuno querelò Scidà.
Il procuratore della repubblica è arbitro dei destini di una città. Molto più di un sindaco
Nel 2006 Micromega raccontò la storia di quella villa e Gennaro querelò ancora. Gli è andata male perché il Tribunale di Roma, all’inizio del 2011, ha assolto gli autori del pezzo: i fatti sono veri e sono stati raccontati fedelmente.
La sentenza di Roma arriva al tavolo del Csm, dove si sta giocando da mesi una partita di capitale importanza per gli equilibri dei poteri etnei. Si deve nominare il nuovo procuratore e Gennaro è tra i candidati che possono farcela. L’altro candidato favorito è il Procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra. Ombre anche sul suo nome. Un parlamentare scrive un’interrogazione e accusa: “Amico dei potenti della città”.
C”è chi riprende una vecchia richiesta di Scidà: mandate a Catania un procuratore “straniero”. Scidà l’aveva scritto al Csm nel 1996. E lo andava ripetendo: “Il procuratore della repubblica è arbitro dei destini di una città. Molto più di un sindaco”. Ma il Csm, allora, nominò Mario Busacca: “Il più intraneo fra i concorrenti”, dirà dopo Scidà.
Undici anni più tardi è la volta di un altro catanese doc, Vincenzo D’agata, presente in quell’ufficio da un quarto di secolo. Immediato il comunicato di felicitazioni del senatore Bianco, come scrisse Claudio Fava che, a proposito del neo procuratore, ricordò anche un episodio di ben ventidue anni prima: “Il questore aveva disposto il ritiro del passaporto dei cavalieri. Riunione affannosa fino a tarda notte nell’ufficio del Procuratore generale. Alla fine si trovava una formula per sconsigliare decisioni affrettate. Insomma per invitare il questore a restituire quei passaporti. La risposta da dare fu formulata dal procuratore generale e scritta sotto dettatura del sostituto Enzo D’Agata”.
Dopo D’Agata ancora un catanese al vertice della Procura? No grazie. L’esposto scritto da Scidà quindici anni prima torna d’attualità e il Csm nomina poche settimane fa un procuratore capo nato a Lecce e da anni pm a Roma. Si chiama Giovanni Salvi e ottiene tredici voti. Due in più di Giuseppe Gennaro, al quale non basta l’appoggio in extremis dei laici del centrodestra.
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Dopo quindici anni ritornano I Siciliani. Un lungo silenzio rotto, di tanto in tanto, da timidi tentativi di controcanto alle verità ufficiali . In pieno caso Catania uscì Controvento, un foglio che denunciava il monopolio ciancesco e le sue mistificazioni, narrava le inerzie della Procura della Repubblica e illustrava come destra e sinistra si stessero mangiando la città. In prima pagina gli editoriali taglienti di Titta Scidà che erano la perfetta anamnesi del bubbone catanese.
Finì male e non poteva finire diversamente: il distributore non volle portare il giornale in edicola. “Noi lavoriamo con Ciancio”, ci disse un impiegato, dando una rapida occhiata al giornale. Niente da fare. Ci restituirono soldi e 5000 copie tirate. Si provò con un altro distributore, che pose tutta una serie di problemi burocratici insormontabili. Poi confidò: “Una persona molto importante ci ha suggerito di trovare ogni scusa per boicottarvi il giornale”.