Due emigranti. “Benvenuti a Milano!”
Sai, son diventato amico di Gino Paoli, il cantante
Perciò ora la narrazione passa da Luciano a Fabio. Come a guardare la stessa storia, guardata da un altro angolo.
Sono passati molti anni dal periodo che mio fratello ed io abbiamo passato a Milano. Dapprima ero arrivato io, l’otto settembre del 2001. Ero partito da Catania, con la promessa di un lavoro da parte di una società interinale.
Arrivato, mi ero messo subito a lavorare; dapprima mi aveva ospitato Tonio, un mio ex compagno; mentre ero a casa sua, solo, al telefono avevo saputo qualcosa che non capivo bene, per cui avrei dovuto accendere il televisore: e la televisione trasmetteva lo scoppio delle torri gemelle a New York.
La prima cosa che pensai è che ero da solo, che la sensazione di benessere che avevo provato nello stare in un’altra città, diversa dalla mia, era diventata or ora altro: ero lontano dalla mia famiglia a Catania e da mio fratello in Toscana. Luciano, per l’appunto, mio fratello, mi avrebbe raggiunto quasi un mese dopo. Insieme saremmo rimasti a Milano fino alla vigilia di Natale.
Siamo stati ospitati, in una piccola stanza, in via Vespri siciliani 12, vicino piazza Napoli, da un amico, con cui avevo fatto un corso a Catania e che avevo ritrovato adesso a Milano.
“Proprio in via Vespri siciliani” ci dicevano i nostri amici al telefono, ridendo.
Luciano ed io, allora, lavoravamo nei ristoranti. Eravamo scappati da Catania, tentando di capitalizzare la nostra arte della ristorazione, e ci eravamo ritrovati ancora una volta nella condizione di servi.
Luciano, prima di arrivare a Milano, era stato appunto a lavorare in un ristorante di un lido estivo a San Vincenzo, vicino Livorno, ve lo ha raccontato lui, nella prima parte di questa memoria.
“Sai, son diventato amico di Gino Paoli, il cantante” mi aveva detto. Di certo, non era stato Gino a farlo restare lì. Chi da subito l’aveva aiutato era stato il cuoco del ristorante. Il suo nome era: Islam. A giugno, Luciano aveva fatto venticinque anni. “ Andiamo a festeggiare”, gli aveva detto Islam . Poi aveva aggiunto “ Beviamoci una bottiglia di vino francese, offro io.” Con lui, Luciano aveva resistito per sette mesi, in quel ristorante, dove aveva lavorato con altri emigranti dell’Europa dell’Est e della Calabria e della Sicilia. Con ognuno Luciano aveva fatto guerre e solidarietà. Poi a fine stagione mi aveva raggiunto.
“Vorrei andare lavorare in Germania”, mi aveva detto.
San Vincenzo – Livorno. Livorno – Catania. Catania – Milano. Non appena lo avevo guardato, alla stazione avevo subito intuito. “Come stai ?” gli avevo detto, ma la sua magrezza e l’esilità di quel momento, mi avevano già convinto di quanto fosse stato utilizzato lì in Toscana.
“Ho trovato un lavoro nel quartiere di Milano due, vicino al San Raffaele”. Lo convinsi a restare con me, perché avevo paura di perderlo davvero, per un viaggio futile, alla ricerca di lavoro. ”Ho trovato un buon posto, devi restare con me”. Ad ogni modo, dissi a Luciano, che tutto sarebbe andato bene, ed infatti il giorno dopo mi fecero il contratto di quarto livello. E l’altro ancora mi licenziarono. Qualche soldo e l’ospitalità del nostro amico in via Vespri, questo ci bastò per andare avanti, per qualche tempo. Nel frattempo tutti i nostri tentavi di uscire dalla condizione di servi fallivano. Ogni mattina compravamo il Corriere della Sera, e con quello andavamo in giro ben vestiti. Le sere, talvolta, passavo da via Solferino, la strada dove c’è la redazione del Corriere, senza mai avvicinarmi troppo, senza mai sognare troppo. Nel frattempo mi accorgevo che i corsi regionali, i lavori al call center, i colloqui alle agenzie non servivano. Ma non mi arrendevo. Sapevo che ero là per scrivere, e che gli strumenti della mia arte stavano nel lavoro manuale. (Un’arte difficile, come la mia condizione di gay dichiarato, come il valore dell’accoglienza, come la lotta contro le mafie fuori dalle retoriche della società civile). Sapevo che stavo pagando un prezzo, ma forse, non mi rendevo conto come adesso cosa significhi uscire dai condizionamenti. Immagino che fra un decennio sarà ancora differente, quando penso al futuro, al mio.