Due emigranti. “Benvenuti a Milano!”
Questo è stata la sintesi del nostro incontro; come quando due mondi, due quartieri, due malattie, si incontrano, e si portano tutto il carico delle loro vite: così siamo stati noi due
Ora vi spiego questa cosa da pazzi: io in passato non avevo avuto un padre vicino e lui in quei giorni, dopo il nostro primo incontro, lo era stato davvero, cioè aveva assunto tutti quei comportamenti protettivi, che me lo facevano qualificare tale. Tra l’altro Fabio, che a quell’epoca era un giovanissimo di ventisei anni, aveva un po’ la mania di fare il “padre- prete”.
Lui, già durante le prime notti, trascorse a parlare di noi, mi aveva raccontato della vita in seminario, dell’uscita, dell’avere mandato al diavolo le convenzioni, e mi aveva confidato i suoi sogni: che era la vita come accoglienza degli altri.
Un sogno un po’ strano, diciamo anche allucinato e allucinogeno per tutti quelli che gli stavano attorno. Quindi lui era una specie di angelo, con una carica di pazzia enorme, che in qualche modo faceva muovere le cose, ed in un altro le confondeva e le complicava. Un qualche modo, buffissimo e stralunato. Un’ “avventura” insomma.
Così noi due ci eravamo incontrati, eravamo due che avevano dei sogni reciproci e corrispondenti da portare avanti. Tutti e due lo avremmo fatto a qualsiasi costo. E così eravamo subito entrati a svolgere questi due ruoli, che ci avrebbero portato spesso lontano, molto lontano anche geograficamente dalla nostra città, appunto fino a Milano per intenderci. Ma che ci hanno poi portato a incontrare molti altri esseri umani, con problemi e condizioni simili o diverse. Ma comunque una specie di scuola di apprendistato, dell’esclusione e delle condizioni di marginalità, che i più grandi sociologi del mondo neanche si sognano di poterci scrivere un “manuale”.
Questo è stata la sintesi del nostro incontro; come quando due mondi, due quartieri, due malattie, si incontrano, e si portano tutto il carico delle loro vite: così siamo stati noi due; e in qualche modo, anche tutt’oggi, a pazzia ridefinita e spiegata, lo siamo ancora, da una parte e dall’altra del nostro diverso tran tran quotidiano.
Ma continuo a raccontarvi, di quei giorni, che furono così importanti e che furono poi la causa di varie nostre emigrazioni, in cerca di una vita vivibile e dignitosa, e che ci poi ci hanno portato a ritornare, come alla ricerca di un pezzo mancante, alla nostra vita, qui a Catania.
E allora, si era arrivati a raccontarvi di quei primi giorni dell’accoglienza. Stavamo camminando by car sulla strada per Pedara, un paesino dell’Etna, vicino Catania, insieme a papà e mamma di Fabio.
Io ci dissi a Fabio:
“Senti, ascolta un cosa pa’…!”. Non avevo finito neanche di pronunciare, che il padre di Fabio – cioè nostro – frenò di botto :
– Ora tutte e due la dovete smettere!
Noi subito ci guardammo in faccia, che capimmo che qui non si scherzava proprio.
– Lucio (così mi chiamava lui) smettila e tu, Fabio, che sei un irresponsabile, e tra l’altro non hai una lira in tasca (a quel tempo l’euro non ci stava) non manipolare a quel ragazzo.
-Papà! (Fabio stava provando a intervenire).
– Smettila! (Ce lo disse in modo feroce ). Smettila. (Ce lo disse in modo fermo).
Poi, infine, in modo protettivo, quasi a capire che non eravamo pronti, che in qualche modo stavamo facendo sul serio, che capiva da quale dolore veniva quell’interpretazione:
– Smettetela. (Fece un attimo di silenzio). Qui se c’è uno che deve far da padre sono io.