Donne di Sicilia e mafia in Sicilia
Fra omertà e ribellione
Buscetta diceva che la donna era lo “stampo” dell’uomo, cioè aveva la forma che il maschio che le stava accanto aveva voluto per lei: ubbidiente, sottomessa, silenziosa, rispettosa dell’autorità del capo famiglia. Dentro la Sicilia era così ed anche in tante periferie agresti del nostro Paese, ma dentro Cosa nostra la cosa era sicuramente più “sentita”, perché dentro Cosa nostra la prima regola è il silenzio e, quindi, l’omertà che pure comprende, oltre al “non parlo” anche il “non sento” e il “non vedo”.
La donna siciliana ha, così, sofferto un condizionamento in più ed è sta costretta a rimuovere un ostacolo in più per liberarsi dalla soggezione e dalla sottomissione.
Ma fu proprio Buscetta a stracciare la fondamentale regola del silenzio sulla quale Cosa nostra aveva costruito il suo dominio sui suoi affiliati e su pezzi significativi della società siciliana e, allora, dopo Buscetta, le cose cambiarono sensibilmente per tutti e, quindi, anche per la donna siciliana dentro Cosa nostra.
Il “pentitismo” maschile inaugurato da Buscetta, avendo prodotto centinaia di arresti, decine di ergastoli e migliaia di anni di detenzione, aveva costretto, infatti, Cosa nostra ad affidare alle donne, cioè alle mogli o alle sorelle o figlie dei detenuti, quelle mansioni che da sempre erano state svolte dai “maschi”.
Cosa nostra avvertì che le “affiliazioni” con tanto di rito, santino e “punciuta” e sangue e bacio non avevano più senso e si servì, piuttosto di gente abile a trafficare in droga e ad imporre il pizzo, ma non degna di diventare “uomo d’onore”: certo, perché l’ “uomo d’onore” poteva sapere tutto di tutti, ma le nuove reclute evidentemente non potevano accedere alle informazioni più riservate.
Le donne, allora, cominciarono a tenere i contatti tra i loro congiunti detenuti e i mafiosi in libertà, sia latitanti che no, a controllare il gettito delle estorsioni, delle altre attività lecite ed illecite e a ridistribuire le risorse così accumulate ai detenuti e per le parcelle degli avvocati.
Come si vede, in Cosa nostra prima del “pentimento” di Buscetta, la donna era strumentalizzata per il suo silenzio, mentre nella nuova situazione la donna è strumentalizzata per il ruolo attivo che deve svolgere.
Fra l’altro, la donna era ancora, per così dire, “favorita” dal persistere di stereotipi e di luoghi comuni sulla sua “arretratezza culturale” e sulla sua “dipendenza e sottomissione” all’uomo, sicché il giudice non aveva neppure gli strumenti per incriminarla per “associazione mafiosa” ma solo per favoreggiamento e, trattandosi di favoreggiamento nei riguardi di un familiare, non era neppure punibile.
Ciò fino alla sentenza della Corte di Cassazione del 25 settembre del 2005 che imponeva di fare riferimento ai fatti accaduti e non più agli aspetti culturali e sociologi della condizione femminile.
Naturalmente tali nuove incombenze furono soddisfatte in diverso modo dalle donne familiari dei detenuti: Pietra lo Verso, prima maledisse il marito “pentito” dicendo che per lei e per i suoi figli era morto, ma, poi, nel 1984, volle ricongiungersi a lui e cambiare vita.
Anche Pina Spadaro nel 1987 prima maledisse il marito e poi chiese agli investigatori di poterlo raggiungere nel luogo segreto della “protezione”.
Carmela Iuculano svolse per un certo periodo il compito di “postina”, ma poi, condizionate dai suoi figli ancora piccoli, decise, nel 2004, di “collaborare” con la giustizia, rompendo ogni legame col marito detenuto e con la “famiglia mafiosa”.
Giusy Vitale svolse addirittura il ruolo di capo mandamento, a Partinico, in sostituzione del fratello detenuto, poi fu arrestata e, in previsione di una lunga pena detentiva, decise di iniziare anche lei, nel 2011, “la collaborazione” con la giustizia.
Le familiari delle vittime della mafia, una dopo l’altra, da Serafina Battaglia (1962) in poi, presero coraggio e collaborarono con polizia e magistratura nella ricostruzione dei fatti, nella individuazione delle responsabilità e nella conseguente incriminazione dei colpevoli: oltre alla già citata Pietra Lo Verso, Michela Buscemi nel 1987, e infine, il 2 novembre 1996, Filippa Spatola, vedova del boss Salvatore Inzerillo volle lanciare dalle pagine del Giornale di Sicilia il seguente, accorato appello:
“Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene; Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di dio. Lasciate che i vostri figli crescano secondo i princìpi sani, capaci di esaltare quanto di bello c’è nel mondo “.
L’universo femminile si è manifestato anche negli esempi del rigore e della “fedeltà” totale a Cosa nostra: Rosali Basile, moglie di Vincenzo Scarantino, implicato nella strage di Via D’Amelio.
Giuseppa Mandarano, moglie di Marco Favaloro, imputato e “pentito” per l’omicidio di Libero Grassi dichiarò che il marito era un infame e che non lo avrebbe mai più voluto vedere. Rosa Romeo, sorella di Pietro, killer al servizio di Leoluca Bagarella, nel momento del “pentimento” del fratello, lo rinnegò giudicandolo pazzo e infame.
Angela Morvillo tentò di dissuadere il marito Fedele Battaglia dal “collaborare con la giustizia, ma poi acconsentì a seguirlo con due delle quattro figlie nella località segreta per poi abbandonarlo per tornare a Palermo.
Al termine di questa veloce e sommaria carrellata va ricordato il caso di Vincenzina Marchese, moglie di Leoluca Bagarella e devastata da formidabili e insopportabili preoccupazioni per non riuscire a dare un figlio al marito, da un senso di colpa per le responsabilità del marito per la scomparsa del piccolo Santino Di Matteo, avvertita come “punizione divina”. Vincenzina Marchese si suicidò, ma anche questo non è assolutamente certo, il suo corpo fu sepolto nel bosco accanto a Bellolampo, dissepolto, fatto a pezzi e bruciato.